Il Foglio sportivo
A Gian Piero Ventura “il calcio non piace più”
"Sono in pace con me stesso. Sono felice e ho ritrovato Bari, che è diventata bellissima. Della Nazionale non parlo, anche se...". Intervista all'ex ct, che ha dato tutto quello che aveva: "testa, cuore, passione, onestà, impegno e determinazione"
“Esiste anche un Ventura calciatore, ma è preistoria minore. Sono arrivato sino alla Serie C, ma a 28 anni un’ernia del disco mi ha messo fuori gioco. A quei tempi si operava con il machete e si apriva, in lungo e largo, la schiena. Piuttosto che affrontare un’operazione invasiva e senza certezze, ho preferito iniziare una nuova attività, grazie alla Sampdoria, la squadra della mia città in cui ero cresciuto e che mi dava la possibilità di allenare nel settore giovanile. È stata una cavalcata straordinaria e piena di soddisfazioni, a parte alcuni momenti negativi e un dolore grande. Se mi chiede a quale delle mie tante squadre sono rimasto più legato, non metto davanti a tutte un club blasonato, ma il Giarre, dove mi sono sempre sentito come a casa mia. Mi hanno insignito della cittadinanza onoraria e, a distanza di più di 30 anni, ancora mi telefonano, mi scrivono, a Natale mi mandano le arance e, se sono in Sicilia e non li vado a trovare, si sentono traditi”.
Ora che è finalmente fuori dai giochi, Gian Piero Ventura racconta con sincerità e disincanto la grande bellezza di una carriera infinita, terminata, come troppo spesso accade nella vita, con un inciampo fatale e una delegittimazione ingiusta, persino crudele…
“Sono rimasto molto legato anche a Pisa, dove non ho vinto nulla, ma ci siamo divertiti, praticando il calcio più bello degli ultimi anni. Il Pisa, neopromosso in Serie B, aveva come direttore sportivo Gianluca Petrachi, che avrei ritrovato in quella stessa veste a Torino, dopo che era stato un mio giocatore a Venezia. Ricordo l’Arena Garibaldi sempre stracolma e un entusiasmo che credo non si sia mai più ripetuto. Metà della tribuna era riempita da addetti ai lavori, che venivano a vedere i giovani che, come il diciannovenne Alessio Cerci, stavamo lanciando e il tipo di calcio che facevamo e di cui ancora adesso si parla”.
Ora lei vive a Bari, dove prese il posto di un certo Conte…
“Dell’esperienza a Bari ricordo la passione, l’entusiasmo, la gioia, la voglia di vivere e di vincere, che avevano la città e i suoi tifosi. Arrivammo decimi e fu un mix memorabile di risultati sportivi e di emozioni umane”.
Restando in Puglia, lei ha allenato anche il Lecce…
“Maurizio Zamparini mi aveva proposto due anni di contratto con il Venezia. Io scelsi di scendere di categoria, accettando l’offerta del presidente Giovanni Semeraro e la sfida di un progetto ambizioso, che mi stimolava. Siamo partiti da 7 spettatori paganti e in due anni siamo arrivati in Serie A, con lo stadio del Mare sempre traboccante di entusiasmo. A Cesena, nel giorno della promozione in Serie A, c’erano diecimila tifosi, arrivati con ogni mezzo da Lecce. Quell’apoteosi sarebbe stata l’ultima mia partita sulla panchina salentina perché, come tante volte mi è accaduto, di fronte a una svolta programmatica che non condividevo, nonostante avessi ancora due anni di contratto, ho lasciato perdere, rinunciando alla Serie A. Andai allenare il Cagliari, appena retrocesso in B. Due anni splendidi anche lì. Il primo anno siamo stati promossi e l’anno dopo abbiamo sfiorato l’Europa, lanciato tanti giocatori e portato a casa, come del resto era accaduto già a Lecce, plusvalenze di miliardi di lire”.
Plusvalenze vere?
“Non vere, ma verissime. Che più vere non si può”.
Il record delle plusvalenze conquistate è rimasto imbattuto dopo Cagliari?
“Ovunque sono andato, ho garantito plusvalenze, ma il record assoluto di oltre 200 milioni l’ho stabilito a Torino. I ‘plusvalenti’ glieli elenco, così come mi tornano in mente: Angelo Ogbonna ceduto alla Juventus, Alessio Cerci all’Atletico Madrid, Ciro Immobile al Borussia Dortmund, Davide Zappacosta al Chelsea, Kamil Glick al Monaco. Rimango dell’idea che, se non hai una proprietà ricca e solida alle spalle, l’unica via sia quella dell’autogestione, che vuol dire coniugare i risultati sportivi con quelli economici. I risultati sportivi li ottieni con l’organizzazione di gioco e la crescita dei calciatori. Quelli economici con la valorizzazioni di giovani. Per me è sempre stato così”.
A proposito di Torino, lei è rimasto cinque anni alla corte di Urbano Cairo, ottenendo risultati importanti, fra cui la partecipazione all’Europa League. Eppure con i tifosi non è stato sempre rose e fiori. L’accusano ancora oggi di supponenza…
“Cinque anni di fila in un ambiente complicato, quale era all’epoca quello del Torino, sono tantissimi. Ho battuto anche il record di permanenza di un’icona come Gigi Radice. Quanto alla supponenza, che vuole che le dica, uno si dovrà pur difendere. In quegli anni la contestazione a Cairo era continua e spesso feroce. Io ero accusato di essere un suo colluso nelle scelte impopolari. E, poi, non c’era un’ondata mediatica favorevole”.
Dal Torino alla Nazionale il passo fu breve e alla lunga doloroso…
“Della Nazionale preferisco non parlare. Una big, di cui non voglio fare il nome, mi aveva offerto tre anni di contratto. Vi rinunciai per andare là dove mi portava il cuore e quell’amore per la maglia azzurra, che era stato il tratto comune, quasi il refrain, della mia generazione. Ricordo, come parte di me, tutti gli alti e tutti i bassi, i trionfi e le delusioni. L’epopea di Gigi Riva, il gol del 4 a 3 di Gianni Rivera contro la Germania, ma anche, a ritroso, i pomodori lanciati a Marassi contro Edmondo Fabbri, dopo l’eliminazione contro la Corea del Nord ai Mondiali inglesi del 1966. L’azzurro lo avevo dentro di me e per questo amore, tenuto stretto sin da bambino, ho ceduto alle insistenze, mi sono fatto coinvolgere e ho fatto una scelta sbagliata, perché non occorreva un lampo di genio per capire che non ci fossero i presupposti per fare bene”.
Si spieghi meglio.
“Chi vuol capire capisca. Dico solo che in quattro anni, nel commentare due mancate qualificazioni mondiali, si è passati dalla tragedia epocale del 2018 all’incidente di percorso del 2022. Credo che anche da questa abissale differenza si possa intuire come, già al momento di accettare l’incarico, non ci fossero i presupposti necessari”.
Il 12 novembre del 2021 lei ha comunicato la decisione di abbandonare per sempre il mondo del calcio, che era stata la sua vita. Era venuto a mancare ogni residuo stimolo…
“Avevo voglia di riprendermi quella vita, che avevo accantonato per quaranta anni e più. Da dodici giorni di vacanza, con la mente già proiettata al primo giorno di raduno agli anni trascorsi, attimo dopo attimo, con te stesso e con la donna che ami. A facilitare il commiato è stato sicuramente un calcio, che non era più il mio e in cui non mi ritrovavo più. Mi sono fermato anche perché il calcio è cambiato nei rapporti con le società, con i presidenti, con giocatori, con i tifosi, con la stampa e con tutti gli addetti ai lavori. Prima erano rapporti umani e strette di mano. Oggi è tutta un’altra cosa. È tutto esagerato. Stefano Pioli in tre o quattro mesi è passato dal migliore al peggiore allenatore italiano. Un tempo c’erano valutazioni meno superficiali e affrettate sulla produttività dei singoli. Oggi, se hai i media a favore puoi permetterti di perdere sette partite senza colpo ferire. Se li hai contro, bastano tre sconfitte e vai a casa. E, poi, è cambiato lo spettacolo. Oggi il calcio è bello da vedere, solo quando lo giochi bene, come il Napoli e a tratti la Lazio e l’Atalanta. Tutte squadre, dove, già prima che ti arriva il pallone, devi sapere dove si trova il compagno a cui lo passerai. Tutto il resto, almeno dal mio punto di vista, è una gran noia. Si scimmiotta quello che fanno gli altri, senza un gesto o un’idea originali. Il calcio lo guardo, ma non mi diverto quasi mai. Sono in pace con me stesso. Sarò anche supponente, ma al calcio ho dato tutto quello che avevo: testa, cuore, passione, onestà, impegno e determinazione”.
A 75 anni Gian Piero Ventura ha persino scoperto la felicità?
“Sì, sono felice. Ho ritrovato Bari, che è diventata bellissima e ho avuto la fortuna di incontrare Luciana, la donna che mi ha dato una sterzata di adrenalina sul piano sentimentale e su quello della vita quotidiana. Sento il dovere di restituirle qualcosa, perché sino al 2021 le ho dato molto meno di quanto meritasse. Quello che sono oggi è tutto merito suo. Come tutti possono vedere, sto finalmente bene. In tutti i sensi”.