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La ex ct della Nazionale di pallavolo: “Dopo un anno in Iran tolgo il velo e ricomincio a sognare”

Eleonora Cozzari

Alessandra Campedelli è stata alla guida della squadra iraniana dal 2022, ma le condizioni per continuare non c'erano. Anche in Italia comunque per un'allenatrice è più difficile. “Ai nostri giovani dico di non sprecare la loro libertà”

Alla voce donne forti aggiungete il nome di Alessandra Campedelli. La pallavolo la conosce bene, è stata alla guida della Nazionale italiana sorde e ha ottenuto con quelle ragazze risultati importanti: un argento alle Deaflympics 2017, un oro agli Europei 2019 e un argento ai Mondiali 2021. Poi la grande occasione: il 2 gennaio 2022 diventa l’allenatrice della Nazionale femminile iraniana (e insieme dell’under 17 e 19) in una terra dove prima di lei aveva portato il verbo del volley anche Julio Velasco. Lato maschile, chiaro. E dove Alessandra Campedelli credeva di avere la possibilità di curare sia l’aspetto sportivo che quello di crescita sociale. Lei, che prima di essere allenatrice è insegnante di educazione fisica e sostegno in una scuola media della provincia di Trento.

 

Peccato combattere contro i mulini a vento, diceva Don Chisciotte. Peccato lottare contro i mulini a vento, ribadisce lei. Perché oggi, un anno dopo, ha dovuto constatare che le condizioni per andare avanti non c’erano. “Ho rifiutato il rinnovo perché in Iran la cultura è sovrastruttura, nessuno ha realmente voglia di cambiare, di evolversi. Anzi, quello che è successo dopo l’uccisione di Mahsa Amini e le proteste che sono seguite, hanno fatto precipitare la situazione. Ed eticamente non riesco più ad accettarlo. A questo si aggiunge che non riuscivo a svolgere il mio lavoro. Io, ci tengo a precisare, non venivo pagata dalla federazione iraniana, ma dalla Fivb (la federazione internazionale) che mi aveva scelta, insieme alla federazione iraniana, nell’ambito del progetto Volleyball empowerment, per sviluppare la pallavolo femminile del paese”. È proprio la parola sviluppo il grande inganno. Alessandra è un fiume in piena quando racconta dodici mesi di ipocrisie.

 

“Quando sono arrivata a Teheran mi ha stupita vedere molte donne occupare posizioni che contano, poi mi è stato chiarissimo che sono lì solo di facciata, appositamente impreparate a svolgere quel ruolo e quindi impossibilitate a farsi valere. La volontà del governo è proprio quella di non formarle perché così può dimostrare che non ce la possono fare. Anche le allenatrici che ho incontrato hanno un livello di preparazione bassissimo. Ma non dipende da loro, non le mettono in condizione di imparare. Quando provavo a spiegare che servono anni per formare dei tecnici e ho chiesto di fare dei workshop, mi hanno soddisfatta per darmi un contentino, ma quando si sono resi conto che questo poteva interferire con i loro piani, mi hanno bloccata. Chi comanda in Iran non ha nessuna intenzione di cambiare, di dare alle donne una vera possibilità. Io non sono una che molla facilmente e aver in qualche modo abbandonato le mie ragazze e le allenatrici che si erano affidate a me per la loro formazione e che in me hanno creduto, mi preoccupa e rende triste. Ma quello che ricevevo erano solo chiacchiere su chiacchiere accompagnate da tazze di tè su tazze di tè. Io ero lì per far crescere il movimento della pallavolo femminile ma non me l’hanno permesso: andrebbe messo in discussione non solo il sistema di formazione delle allenatrici donne (uniche a poter allenare le donne) ma tutte le figure professionali necessarie: dai funzionari ai team manager, dagli staff medici ai preparatori che, ricordo, devono tutti essere donne”.

 

Eppure, quando Julio Velasco ha guidato la Nazionale maschile iraniana (dal 2011 al 2014) non ha incontrato questi ostacoli. “Julio mi aveva detto che ci voleva pazienza e io ce l’ho messa tutta, ma Velasco è un uomo e per gli uomini è diverso: io vivevo in una stanza di tre metri per tre, con le sbarre alle finestre e sopra la palestra. Il mio pari ruolo della Nazionale maschile invece abitava in un hotel a 5 stelle! E non avevo di certo la sua esposizione mediatica, che non mi serviva per farmi vedere, ma per poter informare. Io sono stata tenuta nascosta. Nonostante questo siamo arrivate seconde ai Giochi islamici dove l’Iran non saliva sul podio dal 1966”. Quelle ragazze più di una volta le hanno chiesto di essere la loro voce e lei non dimentica anzi ha promesso loro di raccontare questa storia.

 

“Molte atlete e molte allenatrici mi hanno scritto, sono preoccupate per il loro futuro. La pallavolo era una forma di rivalsa per costruirsi una vita, alcune si sono anche esposte sui social postando i loro ringraziamenti per aver cercato di valorizzarle e di aiutarle. E lo hanno fatto consce che ciò potrebbe creare loro difficoltà. È triste pensarle là e non poter far nulla. Anche la loro impossibilità a viaggiare – perché in Iran i visti non sono concessi facilmente – o organizzare tornei nel paese, dove chiunque viene è obbligata a coprirsi il corpo, contribuisce all’isolamento. In più la maggior parte delle giocatrici e dello staff non parla una parola di inglese. Solo grazie ai social riescono a vedere il mondo e a comunicare con chi è fuori dal Paese. È per questo che il governo decide spesso di togliere la rete internet e bloccare whatsApp. Impedendo la possibilità di parlarsi o far girare filmati, provano a fermare le proteste. Un giorno, quando ormai era chiaro che, nonostante avessi un limitato accesso a internet, ero venuta a conoscenza di quello che stava accadendo nelle strade, mi hanno mostrato i filmati di una manifestazione di protesta alla Sapienza di Roma e mi dicevano: in tutto il mondo si manifesta, anche in Italia. Volevano negare la gravità di quello che succedeva”. Emblema di tutto: il velo. “All’inizio pensavo che in palestra avrei potuto farne a meno ma non è mai stato così. Durante questo anno l’ho sempre dovuto indossare, anche quando ero fuori dall’Iran”.

 

Alessandra Campedelli è tornata definitivamente in Italia, ha ripreso a insegnare, ma se ci fosse la possibilità di allenare di nuovo ad alti livelli lei accetterebbe. Ma anche in Italia se sei donna e vuoi allenare, la strada è in salita. Un dato su tutte: nelle squadre di vertice di A1 e A2, sia maschile che femminile non ci sono allenatrici donne. Né come primo e neanche come secondo allenatore. “Anche a parità di valore, opportunità non se ne hanno. Si preferisce sempre scegliere un uomo. Troppi gli stereotipi. Troppi i luoghi comuni che vogliono sempre il maschio a capo. Di una squadra maschile, perché sono maschi. Di una squadra femminile perché se c’è bisogno di motivare, con una parola forte è meglio. Vedremo. Vedremo se almeno nei club guidati da presidenti donne… si accenderà un po’ di volontà a sfidare gli stereotipi”.

 

Lei è pronta alla chiamata. Un’esperienza come quella alla guida della Nazionale iraniana l’ha messa alla prova. “Devo metabolizzare e riprendere a sognare” dice. E prova a portare il messaggio delle ragazze iraniane anche ai suoi studenti. “Dico loro che sono liberi di scegliere cosa leggere, cosa ascoltare, liberi di cantare per strada, di andare in palestra uomini e donne insieme, di vestirsi come ritengono consono alla situazione, di dire la loro, di protestare pacificamente, di manifestare il loro affetto e le loro emozioni in pubblico. I nostri ragazzi, qui, hanno la possibilità di avere un’istruzione che li rende cittadini liberi, di pensare e di agire. Gli dico di non sprecarla”.

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