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La lunga rincorsa di Marco Baroni
Il Lecce sta vivendo un campionato tranquillo, soprattutto positivo, in Serie A. Merito di una società quadrata e ambiziosa, che ha lavorato bene e ha dato completa fiducia all'allenatore
Prima dell’inizio di questa stagione, con un bilancio frammentato in tre diverse esperienze, Marco Baroni aveva raccolto la miseria di quattro vittorie in 34 partite allenate in Serie A. Un bottino non all’altezza degli ottimi risultati ottenuti in Serie B: alla soglia dei sessant’anni, però, ha avuto la quarta occasione. Gliel’ha concessa il Lecce di Pantaleo Corvino, che gli aveva affidato con convinzione la panchina in B per programmare e centrare la risalita nella massima serie: Baroni, reduce da un ingresso in corsa positivo sulla panchina della Reggina e una decisamente meno esaltante parentesi a Cremona, ha riportato i salentini in A al primo colpo.
Il rapporto tra un direttore sportivo e un allenatore è cruciale per gli equilibri di una stagione: dopo una vita in bilico, Baroni ha finalmente sentito la fiducia di una società quadrata e ambiziosa.
Il Lecce di oggi, ampiamente al di sopra della linea di galleggiamento grazie a una prima metà di campionato in cui ha tolto punti praticamente a tutte le grandi, eccezion fatta per Inter – corsara al Via del Mare a metà agosto con un gol al 95’ di Dumfries – e Juventus, vittoriosa in Salento grazie a una perla di Fagioli, è la conferma che in Serie A esiste ancora spazio per la programmazione. Baroni non si è mai discostato dal suo piano tattico di riferimento, un 4-3-3 estremamente aggressivo che ha nel suo capitano l’uomo di riferimento: Morten Hjulmand, 24 anni ancora da compiere, abbina sostanza e geometrie e non a caso piace alle grandi del nostro calcio. L’organizzazione difensiva del Lecce è a tratti impressionante: Baroni ha trasformato Baschirotto da apprezzato terzino da cadetteria – in quel ruolo si era messo in mostra ad Ascoli, dopo una vita da centrale nelle serie minori - in un muro insuperabile, affiancandolo a un Umtiti che si è tolto di dosso la ruggine degli ultimi anni al Barcellona. Una coppia centrale impronosticabile a inizio anno, eppure tremendamente efficace. Il tecnico ha alternato sapientemente Ceesay e Colombo, rivitalizzato Di Francesco, liberato l’estro di Strefezza, scommesso sulla crescita di Gallo e sull’apporto di due mezze ali affidabili come Blin e Gonzalez, che nonostante la giovane età sembravano già respinti dal grande calcio dopo buone carriere giovanili. Ora c’è curiosità su Maleh, scaricato dalla Fiorentina e arrivato in Salento per tornare a far vedere le giocate con cui aveva stregato la B ai tempi di Venezia.
Alla base di tutto c’è la tranquillità, la fiducia che Baroni sente e riesce a trasferire ai suoi ragazzi.
Il suo percorso da allenatore è stato lungo e accidentato: una gavetta sofferta, contraddistinta da alcuni esoneri e da un’occasione arrivata forse troppo presto, con una manciata di panchine in Serie A, al Siena, frutto dell’esonero di Marco Giampaolo e della relativa promozione dalla Primavera, dove si era rifugiato, con successo, in seguito ad alcune delusioni. Aveva cercato di rilanciarsi a Cremona per poi prendere la rincorsa da lontano, ancora una volta: due anni alla guida della Primavera juventina, con un Viareggio e una Coppa Italia di categoria in bacheca. Affrancarsi dalle etichette scomode è stato l’imperativo ricorrente della carriera di Baroni: prima il tecnico buono soltanto per le giovanili, quindi quello capace soltanto in Serie B. A Benevento era arrivato dopo una stagione positiva a Novara, infilando però nove sconfitte in altrettante partite in Serie A: un incubo. Era poi arrivato a Frosinone a metà campionato al posto di Moreno Longo, senza riuscire nell’impresa salvezza. A Lecce, finalmente, ha trovato la stabilità che cercava. Parla poco e quando lo fa è pienamente calato nella filosofia della società: se i soldi sono pochi, bisogna bilanciare con coraggio e idee. Non fa richieste particolari di mercato, non elabora tabelle, lavora con quel che passa l’ispirato convento di Pantaleo Corvino. E sta per centrare la prima salvezza in A della sua carriera, usando la testa. La stessa che in una domenica di aprile del 1990 aveva consegnato al Napoli il suo secondo scudetto: due fili invisibili che ora sembrano nuovamente sovrapposti.