You'll Never Walk Alone
Klopp sta provando a rivoluzionare il Liverpool che fu di Klopp
I Reds stanno vivendo una stagione difficile, complicata ulteriormente dal 2-5 subito in Champions League dal Real Madrid ad Anfield Road. Il tecnico tedesco però sta cercando di ricostruire un gioco che abiura, in parte, la sua rivoluzione
Il paradosso per uno come Jürgen Klopp, uno che ha sempre fatto di tutto per stare lontano dai cliché calcistici e non solo, è che sia finito, suo malgrado, in uno dei più abusati, e forse indimostrati, cliché: la crisi del settimo anno. Che ci sia un momento di difficoltà in un rapporto dopo sette anni è probabilmente una cavolata, eppure è dato per buono, quasi fosse una verità assoluta. Il rapporto tra Jürgen Klopp e Liverpool, il Liverpool, è alla settima stagione piena (l'ottava formale, ma con Klopp i formalismi non valgono).
Era subentrato l’8 ottobre 2015 all’esonerato Brendan Rodgers, completando un campionato buono solo di rodaggio, con una squadra creata e pensata per un altro tecnico, insomma un teaser, un’anticipazione di quello che sarebbe stato successivamente. Il Liverpool allora era una squadra spaesata, in preda al ricordo di anni vincenti, almeno in Europa, alla nostalgia di un titolo inglese che non si vedeva ad Anfield Road da ben prima della creazione della Premier League – era la stagione 1989-1990, la Premier venne creata nella stagione 1992-1993 –, e alla tristezza per l’abbandono del capitano Steven Gerrard, della giovane promessa Raheem Sterling e dell’attaccante grazie al quale erano tornati a sognare grandi vittorie, Luis Suárez, partito per Barcellona l’anno prima.
L’arrivo di Jürgen Klopp fu segnato da parole sincere, dirette, di quello strano ottimismo realista che hanno solo certi tedeschi: “C’è da aspettare, da avere pazienza perché senza pazienza non si costruisce mai nulla di buono, per cui andateci piano. Sarà difficile all’inizio e ci vorrà tempo, anni probabilmente. State però certi che ci divertiremo assieme”.
Jürgen Klopp mantenne la promessa. A Liverpool si divertirono, ritornarono a vincere un campionato dopo quasi undicimila giorni.
Ora un po’ meno. Almeno in questa stagione, dannatissima a vederla dalle sponde rosse del fiume Mersey. Con l’FA Cup e la League Cup già perse per strada, una classifica in Premier che segna diciannove punti di ritardo dall’Arsenal capolista (e un ottavo posto che significa saluti all’Europa, ma con due partite da recuperare) e ora anche un 2-5 sul groppone in Champions League subito ad Anfield Road dal Real Madrid.
E sì che poteva essere diversa. Perché in vantaggio per 2-0 il Liverpool aveva pensato che sarebbe stato possibile finalmente battere i Blancos, quelli che gli avevano “sottratto” la Champions il 28 maggio di un anno fa (e prima anche nella stagione 2017-18. Due finali perse lenite da quella vinta il primo giugno 2019 contro il Tottenham). Non è andata così. Non è la prima volta, perché è da agosto che la stagione dei Reds poteva essere diversa.
Il Liverpool aveva cambiato poco, era arrivato un centravanti di grande talento, Darwin Nuñez, la partenza di Sadio Mané era già stata preventivata e il suo buco colmato con sei mesi di anticipo con l’acquisto di Luis Díaz, al quale si era aggiunto pure Fabio Carvalho. E alla prima occasione, la finale di Community Shield, che altro non è che la loro Supercoppa, aveva rifilato un 3-1 al Manchester City di Pep Guardiola.
I problemi sono arrivati dopo. E sono problemi che Jürgen Klopp ha capito essere gravi, profondi, quasi strutturali. Si è accorto, l’allenatore tedesco, che quello che lui aveva contribuito a creare, quel nuovo gioco che nuovo che nuovo non era, discendente (in)diretto di certo calcio tedesco anni Novanta ma adattato in modo perfetto alla modernità, era diventato non più una novità, ma qualcosa di simile a tanti, troppi. In un’estate Jürgen Klopp si è trovato di fronte al fatto, per di più già compiuto, che il suo gegenpressing, ossia la pratica di pressare l’avversario immediatamente dopo aver perso palla senza aspettare di riorganizzare la difesa, era qualcosa che ormai veniva applicata dai più e spesso in modo migliore dell’originale. E senza nemmeno più chiamarlo gegenpressing.
È mai semplice trovarsi di fronte alla consapevolezza di non essere più il migliore a mettere in pratica il calcio che ti ha reso se non il migliore, quantomeno tra i più bravi allenatori al mondo. Ci vuole del tempo per interiorizzarlo, altro tempo per cercare soluzioni che non sia il fanciullesco “siete solo dei copioni, gnegne”. Atteggiamento che del resto non è mai stato nelle corde dell’allenatore tedesco. E così Jürgen Klopp si è rimboccato le maniche e ha cercato di trovare soluzioni alternative, consapevole che qualcosa potesse andare storto. È andato storto più di qualcosa.
Abbastanza prevedibile tutto ciò.
Perché per cambiare una squadra basata su di un modello di gioco che al suo apice era stata in grado di inchiodare le avversarie nella loro metà campo con la foga di un pressing altissimo e immediato, basata su un modo di giocare velocissimo e vorticoso, fatto di corsa sfrenata e cambi di posizione velocissimi, senza avere nemmeno bisogno di un regista capace di dettare i tempi, serve cambiare tutto. Serve soprattutto molto tempo. E tutto questo può generare parecchia confusione. Quella che si sta vivendo a Liverpool. Contro il Real Madrid tutto questo è stato molto chiaro. “Abbiamo dato il via a tutti e cinque i gol del Real. Tutti e cinque. Ora come ora abbiamo bisogno di pulizia e precisione nei passaggi e nel primo tempo, tolte le due azioni nelle quali abbiamo subito gol, è andata così, è stato praticamente il migliore che abbiamo giocato in questa stagione”, ha riassunto Jürgen Klopp.
I Reds stanno vivendo una mutazione, diretta dallo stesso allenatore che dall'ottobre del 2015, e nelle successive due stagioni, aveva cambiato i connotati alla squadra, in una stagione nella quale tutto doveva essere come recentemente era sempre stato. E questo senza piagnistei, da parte di chi ha ammesso candidamente di essersi accorto troppo tardi che le certezze sulle quali si basava il suo modo di giocare erano diventate vetuste.
La società in tutto questo ha deciso di non cambiare, potrebbe farlo, ma non è detto, anzi. Finora la proprietà ha confermato la fiducia all’allenatore e il direttore sportivo Jeffrey Vinik ha sottolineato che “poteva essere una gran stagione, si è trasformata in una stagione difficile, ma nella quale sta accadendo qualcosa che potrebbe regalarci comunque un buon futuro”.
I Reds sono consapevoli che qualcosa si è rotto e che qualcosa si sta creando.
I tentativi di Klopp di modificare il suo gioco, che per anni si è basato sulla interpretazione in chiave moderna del Metodo che tanto fece vincere Vittorio Pozzo negli anni Trenta – il cosiddetto WM o in cifre un 2-3-2-3 –, non sono ancora pienamente riusciti. Non è affatto semplice fare in modo che una squadra che ha sempre evitato di curare il possesso palla, inizi a curare il possesso palla, rallenti il suo incedere e inizi addirittura a sostituire l’intensità di chi arremba con la calma di chi dirige.
Jürgen Klopp si arrabbia, scalcia e sbuffa, ma in fondo in fondo ci crede. Lui è pur sempre lo stesso, il confessore dei suoi giocatore, il pastore d’anime calcistiche che sa perfettamente che una squadra per funzionare deve essere un corpo unico che si muove corre pensa tutto assieme. Ed è per questo che ci vuole del tempo. Klopp ha detto che tre settimane sono lunghe e che a Madrid scenderà per vincere. Potrebbero non bastare, chissà.