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“Siamo stati io e Zeman a cambiare il pallone. Non Sacchi”. Intervista a Gigi Maifredi

Antonello Sette

“La rivoluzione è solo la mia. Per me il calcio era proporre e dominare. Un mantra, nato per contrappasso, che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Se facessi l’allenatore oggi, i difensori duri e puri li abolirei”, ci dice l'ex allenatore di Bologna e Juventus

Gigi Maifredi ci racconta a cuore aperto tutta la verità sull’Avvocato, l’ascesa e la caduta.

“Giocavo nelle giovanili del Brescia, ma non ero predisposto al calcio attivo. Un po’ perché mi piacevano le ragazze e andare a ballare. Un po’ perché io mi sentivo un centrocampista, potenzialmente anche bravo e, invece, mi facevano giocare stopper e mi dicevano: ‘Ragazzo rincorri il nove’. Io inseguire qualcuno? Io dipendere da un altro? Inaccettabile. Per me il calcio era proporre e dominare. Un mantra, nato allora per contrappasso, che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita”. 

 

A tre quarti di secolo suonati, Gigi Maifredi da Lograto, piccolissimo Comune del bresciano, è ancora lì a dettare gli schemi di una vita piena, anche ora che la controversa ribalta è lontana. Lui, a prescindere da come è andata a finire, si sente ancora e per sempre l’antesignano del calcio che, dopo di lui, sarebbe stato.

“Non ho mai cambiato idea. Se facessi l’allenatore oggi, i difensori duri e puri li abolirei. Del resto, i più grandi di sempre sono stati Gaetano Scirea e Franco Baresi, che sapevano difendere, ma anche, se non soprattutto, impostare. Molti si appropriano del titolo di rivoluzionario del pallone. Io credo che la rivoluzione l’abbiamo fatta io in alta Italia e Zdenek Zeman nel centro sud. Tertium non datur. Poi, altri si sono aggregati e presi meriti che non gli appartenevano. Il gioco a zona, il famoso 4-3-3, è nato da noi due. È inutile girarci intorno. Altri l’hanno promozionato, non inventato. Il Milan di Arrigo Sacchi tatticamente è stato qualcosa di molto importante, ma lui dietro aveva sempre giocato a cinque. È stato Silvio Berlusconi a dirgli di giocare a quattro. Il Cavaliere aveva avuto al Milan Nils Liedholm, che aveva inventato la zona alla Roma. Una zona, che faceva di necessità virtù. I giocatori erano tutti avanti con gli anni e, cercando di limitare al massimo le corse a vuoto, per loro comodità si auto- confinavano in una ristretta zona di competenza. Liedholm, che era super-intelligente, non fece altro che trasformare in un teorema la comprensibile voglia di risparmiare energie dei propri attempati calciatori”.

 

Arrigo Sacchi non ha, quindi, checché se ne pensi, inventato nulla?

“Sacchi è stato bravissimo, quando è andato al Milan, a ripiegare sulla zona. Nel Parma si era fatto notare giocando con Gianluca Signorini nel ruolo di libero, due difensori e due esterni. Berlusconi gli ha fatto togliere il libero e lui ha cominciato a giocare con la difesa a quattro. Peraltro, si è perfezionato mandando suoi uomini di fiducia a vedere i miei allenamenti e quelli di Zeman ed è stato indubbiamente capace di costruire una squadra, che era bella da guardare”. 

 

Prima della fama e della rivoluzione, lei aveva girovagato, in lungo e in largo, per l’Italia. Che cosa ricorda dei suoi inizi da allenatore non ancora predestinato?

“La mia carriera nasce a livello dilettantistico e nulla faceva presagire che io potessi salire i gradini che conducono al professionismo. Ho iniziato creando una squadra, il Real Brescia, composta dagli amici della zona, in cui vivevo. Poi sono andato a Crotone a fare il responsabile del settore giovanile e l’allenatore in seconda. Due anni senza prendere una lira, perché la società era perennemente in crisi. Rientrando a Brescia, pensai che il gioco era già finito. Avevo una moglie e due figli e decisi di farla finita con il calcio e di buttarmi nel mondo della rappresentanza. Piazzavo champagne, quello buono. Poi, però, ho ricominciato. Sono andato al Lumezzane e, da lì, più avanti all’Orceana, che era appena salita in Serie C2, dove ho fatto un campionato eccezionale. Poi all’Ospitaletto e ho vinto. Poi al Bologna e ho vinto, portando al terzo anno la squadra in Coppa Uefa”.

 

Poi è arrivata la Juventus e sono cominciati i guai…

“Sì, è arrivata l’occasione di una grande squadra che voleva rivoluzionare tutto. Io penso che ognuno di noi è depositario delle proprie fortune e sfortune. Però, in quel caso, quando sei assunto da una squadra, che è un mondo consolidato e diverso, hai bisogno di tempo e la Juve il tempo non te lo dà. Per giunta, quelli che erano stati estromessi, a favore di Gigi Maifredi e Luca Cordero di Montezemolo, hanno fatto una grancassa e io a un certo punto non ne ho potuto più e me ne sono andato. E anche Montezemolo è durato poco ed è rientrato il già estromesso Giampiero Boniperti”.

 

Mi sta dicendo che lei non ha colpe e rifarebbe tutto…

“È evidente che in una società così blasonata le logiche e i ritmi sono molto diversi. Con il senno di poi, posso dire che avrei avuto bisogno di allenare per un paio d’anni una squadra intermedia fra il Bologna e la Juventus. Mi voleva la Roma. Fossi andato là, avrei cominciato a capire l’andazzo generale e, una volta alla Juve, avrei potuto fare qualcosa di più, anche perché nella mia testa c’era la possibilità di cambiare il gioco, che era la ragione per cui mi avevano scelto”.

 

E invece il salto improvviso le fece girar la testa e perdere il senso dell’orientamento, come una vertigine… 

“Venivo da un filotto infinito di vittorie e non avevo messo nel giusto conto le difficoltà che avrei incontrato. Al di là di questo, io sino alla ventesima giornata sono stato primo o secondo. Poi, mi hanno fatto una “carognata” e in quel preciso momento ho maturato la voglia di venir via dalla Juve e, in qualche modo, dal calcio”.

 

Non ci lasci nel dubbio e nell’incertezza. Quale è stata la “carognata”?

“Ci hanno fatto perdere una partita a Marassi contro la Sampdoria, fischiandoci un rigore contro, che definire inesistente è riduttivo, e facendoci perdere una partita che avevamo dominato dall’inizio alla fine. In quel preciso momento ho capito che ero un carneade che nessuno avrebbe mai difeso. Lì ho mollato ed è stata la mia più grande mancanza. Pensi che, prima del derby contro il Torino, dissi ai giocatori che, visto che il nostro modo di giocare non gli piaceva, erano liberi di ripristinare il libero. Lasciai che fossero loro a fare la formazione e con Daniele Fortunato nel ruolo di libero dietro la difesa perdemmo per 2 a 1. Dentro di me, avevo da tempo già detto basta”.

 

Lei peraltro due anni prima aveva avuto l’ardire di dire no a Boniperti. Un gran rifiuto che fece all’epoca scalpore…

“È stato forse il mio grande sbaglio. Boniperti era uno che, quando faceva una scelta, la difendeva sino in fondo. Probabilmente la storia sarebbe stata molto diversa. Con Montezemolo mi sono trovato benissimo, ma i tempi non erano più quelli di prima. Mi sono ritrovato a metà del guado, immerso in un’epoca di mezzo”.

 

Ci ragguaglia su quella sera, in cui si ritrovò catapultato in un box dello stadio Comunale di Torino, in cui mancava solo la Regina Elisabetta d’Inghilterra…

“Stavo facendo un master a Coverciano, insieme a Marco Tardelli e Claudio Gentile. Ci avevano assegnato il compito di seguire la Germania ai Mondiali di Italia ’90. Quella sera i tedeschi giocavano a Torino la semifinale contro l’Inghilterra. Dovevo vedere la partita con i miei amici e compagni di corso, ma all’entrata dello stadio, Montezemolo mi disse che ero atteso nel box dell’Avvocato. C’erano Henry Kissinger con la moglie Nancy, il presidente della Morris e quello della Mercedes. La cosa drammatica era che la lingua ufficiale, che lì si parlava, era l’inglese, che io ignoravo completamente. Ricordo che, qualunque misteriosa cosa mi dicessero, rispondevo sempre e soltanto yes”.

 

La serata non si concluse con il triplice fischio finale…

“Una volta usciti dallo stadio, ci hanno portato in elicottero a Caselle e da lì a Roma sull’aereo privato dell’Avvocato. C’era quattro posti davanti e dietro un salottino, dove erano alloggiati gli ospiti vip. Davanti, accanto a me, c’era Gianni Agnelli. Di fronte Montezemolo e Cesare Romiti. Mi proposero un contratto di tre anni. Io chiesi e ottenni che durasse solo un anno. L’avventura con la Juventus è iniziata ad alta quota. Sarebbe finita per una scelta solo mia. Quando l’Avvocato mi chiese quali fossero le ragioni della scelta di andar via, gli risposi che i referenti erano troppi e che io a tutte quelle voci separate e discordanti non ero abituato. Non c’era unità di intenti. Qualcuno telefonava ancora a Boniperti. Qualcun altro a Pietro Giuliano. Lasciai di mia sponte, perché ero impossibilitato a lavorare, come avrei voluto”.

 

Poi, dopo la Juventus però praticamente non ha vinto più…

Dopo la Juventus non mi sentivo più un allenatore. Andavo a prendere soldi e basta. Era completamente sparito quell’animus pugnandi, che mi aveva consentito di diventare in cinque o sei anni il più grande allenatore europeo. Lo posso dire a ragione, perché mi cercavano tutti. Con la testa non ero più dentro il calcio. Ho allenato per convenienza e non perché credevo di fare ancora per davvero l’allenatore”. 

 

Sono meglio gli allenatori di oggi o quelli di una volta?

“Io dico che gli allenatori di una volta si ritroverebbero avvantaggiati dai nuovi metodi di preparazione. Penso a mio padre che guidava un camion, senza servosterzo, cambio e marce sincronizzate. Con i camion di oggi, potrebbe guidare fumando una sigaretta. Gli allenatori di una volta erano più bravi di quelli di oggi. Oggi ci sono bravi allenatori, ma non vedo il genio. Guardiola sembra il più dotato e infatti ha vinto due Champions con il Barcellona”.

 

Quale è stato il momento il momento più bello della sua vita?

“Quando nel 1971 mi sono sposato con Bruna e quando sono nati i miei figli Christian e Paolo e le due nipotine Sofie e Marta”.

 

Cinquantadue anni di matrimonio. Un grande amore…

“Eravamo stati abituati a pensare che la persona che sposavi la tenevi con te sino alla fine. Adesso si sposano, ma se le cose non vanno come vorrebbero, si separano subito. È un po’ come il calcio di oggi. Io abito a Brescia, dove Massimo Cellino ha già cambiato quattro allenatori. Una cosa del genere è solo spettacolo. Con il calcio non c’entra nulla”.

 

Ma ci sarà pure un momento indimenticabile legato al calcio?

Il momento più bello è stato quando sono andato a Bologna. I tifosi, che erano ancora legati a grandi allenatori vincenti, come Fulvio Bernardini e Bruno Pesaola, mi hanno accolto come peggio non avrebbero potuto. Dopo dieci giorni di contestazione feroce durante il ritiro, sono andato a parlare con loro e alla fine di quel colloquio concitato mi applaudirono e mi dissero che mi avrebbero concesso tutto il tempo necessario per ricostruire una squadra che si era a malapena salvata dalla serie C. Sì, la soddisfazione più grande, calcisticamente parlando, l’ho ricevuta al cospetto di quei tifosi urlanti  più che viaggiando su un aereo di lusso, accanto al gotha del calcio, dell’imprenditoria e della politica”.
 

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