Foto di Massimo Paolone per LaPresse

Il Foglio sportivo

Il predestinato Thiago Motta non passa più per pazzo

Marco Gaetani

Il segreto del Bologna è nel centrocampo che si evolve in base alle necessità. E nel lavoro sulla testa dei giocatori

Thiago Motta insegue un pallone praticamente da quando ha iniziato a camminare. Da ragazzino, nelle strade di Saúde, un quartiere di San Paolo, scoprì quanto può essere forte il richiamo del calcio e da quella vocazione non si è mai discostato. Ha sempre letto il gioco prima degli altri, lui che era più veloce di pensiero che di gambe: il modo migliore per nascondere le proprie lacune. La chiamata del Barcellona era arrivata presto, durante il Sudamericano under 17. Un dirigente blaugrana si presentò in ritiro con la maglia di Rivaldo autografata e Thiago capì in fretta cosa fare. A 16 anni, da solo, dall’altra parte del mondo, per Motta iniziò il lungo percorso verso una carriera di alto livello. Si stupiva vedendo Carles Rexach girato di spalle durante gli allenamenti: “Dal fruscio del pallone capiva se facevamo le cose giuste”. A vedere Thiago Motta in panchina, si fa fatica a immaginarlo di spalle rispetto ai suoi ragazzi. Ha scoperto il calcio organizzato negli anni formativi della Masia e ha trovato a Genova un maestro anomalo come Gian Piero Gasperini: un impatto traumatico con un modo di vedere il gioco opposto a quello al quale era abituato. Eppure, dopo anni di patibolo per gli infortuni, fu lui a farlo nuovamente innamorare di un calcio che non stava più sentendo suo. A Genova era arrivato dopo una trattativa tormentata, la lite con Preziosi in una pizzeria di Desenzano dopo due visite mediche non convincenti. E poi l’Inter, Mourinho, il triplete, la felicità di riscoprirsi campione tra i campioni. Quindi il Paris Saint-Germain, la decisione di smettere e di iniziare a vedere le partite da un’altra prospettiva.

 

Sembrava un predestinato e allora ci hanno messo poco a farlo passare per pazzo, per visionario. Tutto cominciò da un’intervista nella quale parlava del modulo 2-7-2, suggerendo una rilettura tattica delle formazioni non più per fasce orizzontali, bensì verticali. Due esterni per fascia e sette uomini, portiere incluso, nei corridoi centrali del campo. Pareva un’eresia. Ma Motta è stato sempre lucidissimo, ha dimenticato in fretta la bruciatura del subentro in corsa a Genova e ha preso la rincorsa dallo Spezia. Una sfida apparentemente impossibile: arrivato a inizio luglio per tamponare la fuga di Italiano, aveva raccolto una squadra appena privata di alcuni pezzi pregiati senza avere modo di sostituirli. Ne era uscita un’esperienza esaltante, una salvezza meritata con alcuni guizzi degni di nota. Senza poter contare sul migliore Nzola, ha trovato ovunque i gol necessari per arrampicarsi verso la permanenza in A: quelli di Verde e Gyasi ma anche quelli di Rey Manaj, che oggi si ritrova svincolato. Doveva essere il trampolino di lancio, invece Motta ha dovuto aspettare. 
Al Bologna ha preso il posto di Sinisa Mihajlovic: un esonero che da molti fu paragonato a una mancanza di rispetto, senza cogliere che in realtà si trattava dell’atto di massimo riconoscimento, la volontà di trattare il serbo esattamente come avrebbero fatto con un tecnico non alle prese con un dramma sfociato poi nel peggiore epilogo possibile. Era un Bologna triste, una piazza convinta di essere alle prese con la smobilitazione dopo le cessioni di Hickey, Theate e Svanberg. Per l’ennesima volta, tutti avevano sottovalutato la capacità di fare mercato di Giovanni Sartori, dirigente geniale la cui unica colpa sembra essere la volontà di non farsi notare.

 

Motta ha immediatamente impresso il proprio marchio. Ha assecondato le intuizioni di Sartori, facendole via via diventare fondamentali per l’economia del gioco rossoblù: Posch, Lucumì, Sosa. E ha lavorato sulla testa di chi sembrava bloccato in un tunnel di mediocrità: ha convinto Soriano a reinventarsi esterno a 32 anni, facendolo diventare un regista decentrato, l’uomo in grado di cucire trame e reparti. Ha ridato fiducia a Orsolini, che a 26 anni pareva relegato al ruolo di eterna promessa e invece ha segnato cinque gol da quando è iniziato il 2023. Ha ritrovato il migliore Dominguez, creduto in Schouten, lavorato sulla testa di Barrow che era finito ai margini, sopravanzato da Arnautovic, la cui assenza ormai quasi non fa più male dopo un avvio di campionato in cui era diventato l’ancora di salvezza della squadra, e Zirkzee. La vittoria sull’Inter è quella che ha fatto più rumore, arrivata in una partita in cui, a tratti, il Bologna ha preso a pallonate la porta di Onana, ma la risalita dei rossoblù, settimi in classifica grazie soprattutto ai cinque successi infilati nelle ultime sette partite, nasce dalle sconfitte delle prime uscite. Ha avuto bisogno di qualche aggiustamento, di disporre i tasselli al posto giusto. Per apprezzare fino in fondo il Bologna bisogna osservarne il centrocampo, che si evolve in base alle necessità. Il segreto si chiama Lewis Ferguson, catapultato a Bologna dalla Scozia. Nel calcio di Motta è l’incarnazione del Raumdeuter, il soprannome che si era autoattribuito anni fa Thomas Müller: del tedesco non ha ancora la ferocia in zona gol, ma è abilissimo nell’interpretare gli spazi. Sa essere regista aggiunto, mezzala, trequartista, esterno e seconda punta nel corso della stessa partita, l’uomo in più di una squadra bella e vincente. Thiago Motta, dalla panchina, è il direttore d’orchestra. Innamorato del pallone, senza mai voltarsi di spalle.

Di più su questi argomenti: