Sorprese sotto canestro
New York sta riscoprendo la febbre da grande basket
29 vittorie nelle ultime 43 gare e ambizioni da mina vagante nei playoff: questi Knicks divertono e sono la squadra del momento perché sono più squadra di tutte le altre. Tra fuoriclasse inattesi e un coach su misura. Dopo vent’anni di delusioni, il Madison Square Garden è di nuovo al centro dell’Nba
Nove sinfonie di fila, le ultime due a fil di sirena. La sbilanciatissima tripla di Julius Randle che batte Miami, quella a regola d’arte del bostoniano Horford che si infrange sul ferro: è evidentemente il momento dei New York Knicks. Che non smettono di vincere, coinvolgere, dispensare bel gioco e scalare le gerarchie del basket americano. Quinti a est con il 59,1 per cento di vittorie, nonostante il 21esimo budget su 32. Nota a margine: tre stagioni fa il regista Spike Lee, forse il più iconico tifoso blu e arancio, chiamava la franchigia in caduta libera “il fottuto zimbello della lega”. Oggi invece l’intera Nba si interroga: i Knicks possono essere davvero dei contender per il titolo?
Basta la domanda, per mettere i brividi a tutta Manhattan dopo un ventennio di disastri misti a illusioni sul parquet. E invece c’è di più, a partire da nuovi protagonisti che dirottano il pensiero all’età dell’oro: questo febbraio il Madison Square Garden si era alzato in piedi ad applaudire i ragazzi del ’73, per il cinquantenario del secondo dei due anelli vinti dai Knicks. È stata una sentitissima cerimonia, con il 78enne Walt Frazier a rievocare la squadra di ieri e commentare in diretta quella odierna – che nel frattempo dominava i New Orleans Pelicans nella quinta gara di questa striscia vincente.
Un filotto che riassume tutto. L’arrivo da Portland di Josh Hart, un “cagnaccio” (parole sue all’esordio) nel ruolo di ala piccola con doti da clutch player: l’ultimo giocatore sbarcato a New York a stagione in corso e imbattuto nei suoi primi otto match fu il compianto Dave DeBusschere nel 1968, unendosi a Frazier e futuri campioni Nba. Con il colpaccio a Boston, Hart ha superato quel record, completando una macchina che gira a meraviglia. Randle è ormai un trascinatore da all-star game, da 40 o più punti a partita per quattro volte in stagione (pure primato di franchigia).
Jalen Brunson è il playmaker della svolta: in estate Dallas lo trattò da esubero, i Knicks gli hanno affidato le chiavi della squadra e lui è stato appena eletto giocatore del mese per la Eastern Conference (27,3 punti e 6 assist di media). Lunedì notte però era assente per affaticamento. A sostituirlo ci ha pensato Immanuel Quickley, sesto uomo ideale, che ha risposto con la miglior prestazione della carriera (38 punti, compresi i 7 decisivi nel secondo overtime) e oltre 50 minuti in campo per la seconda volta quest’anno (è l’unico dell’intera Nba). Lui e RJ Barrett, guardia tiratrice, da professionisti hanno vestito soltanto la canotta arancioblù: a 23 anni giocano da veterani. C’è poi la propensione al sacrificio sotto le plance, tra Mitchell Robinson e Isaiah Hartenstein, fondamentale quando si era infortunato il centro titolare. Chiudono il cerchio le folate di Obi Toppin e Quentin Grimes dalla panchina. Sono i magnifici nove di New York, dirige l’orchestra coach Tom Thibodeau.
È un numero che ritorna, questo nove. E se magari le vittorie consecutive hanno una componente aleatoria, la quantità esatta degli interpreti è l’ingrediente più consapevole dell’exploit di questi Knicks. Fatto di paziente ricostruzione e riscatti cestistici, di metodo e unità d’intenti. Tutto era iniziato a luglio 2020, quando la proprietà fa tabula rasa e assume un allenatore in cerca di rilancio come Thibs. Che imprime da subito la sua solida pallacanestro, porta New York ai playoff dopo sette anni e viene eletto Coach of the year. Gli era già successo soltanto a Chicago, nella sua stagione d’esordio (2010/2011), quando a sorpresa aveva trascinato i Bulls alle finali di Conference.
Di quel gruppo avrebbe chiamato a Manhattan Derrick Rose e Taj Gibson, i suoi uomini più fidati, divenuti vecchie glorie da astri nascenti qual erano. L’esperimento dapprima funziona, poi si inceppa per limiti d’età. Nel 2021/22 i Knicks chiudono con un grigio undicesimo posto a est. Serve staccarsi dal passato. Il definitivo schiaffo della realtà arriva il 3 dicembre scorso, quando la squadra prende un’imbarcata casalinga dai Mavericks e viene fischiata dai tifosi. Si contano più sconfitte che successi e la post-season sembra un miraggio. Così a fine gara il coach compie una duplice scelta sofferta: mettere ai margini del progetto Rose, suo pupillo e fu Mvp, scommettendo tutto su Brunson; e ridurre le rotazioni sul parquet da dodici a nove uomini. Da allora, New York ha vinto 29 partite su 43.
Il rischio era alto, perché il roster dei Knicks è lungo (16 giocatori) e con ingaggi pesanti (i soli Rose e Fournier guadagnano oltre 32 milioni di dollari annui). Invece lo spogliatoio si è perfino compattato: “Avevamo bisogno di ritmo e ruoli ben definiti”, spiega Thibodeau. Senza primedonne o scontenti di sorta. “Odio questo record che mi viene attribuito”, twitta Hart, “stiamo splendendo e vincendo insieme”. Mentre un leader tecnico come Randle dichiara che “anche senza giocare, Rose è una leggenda e il suo contributo resta fondamentale per guidare i ragazzi più giovani”. Nel 2023, gli unici due minuti di Derrick in campo risalgono a quella notte contro i Pelicans, in pieno garbage time e con il palazzetto in delirio: sembrava il ragazzo più felice del mondo. È la sintesi della filosofia del coach, riassunta nella sua ultima conferenza stampa: “Vincere è molto più divertente di quanto lo sia il semplice divertirsi”. E tra fame e talento, questi Knicks ci hanno preso gusto.
Resta solo quell’etichetta da eterni incompiuti, che franchigia e allenatore non vedono l’ora di scrollarsi di dosso. Di nuovo insieme: oltre a Chicago, Thibodeau aveva sfiorato il titolo Nba proprio qui, nel 1999, da assistente di Jeff van Gundy. Da lì in poi la Grande mela ha via via smarrito la febbre del basket, ma le prodezze di Randle e compagni stanno ridando seri scossoni al termometro. Di più c’è soltanto un finale da film. “Questa è New York, amico”, recitava Jack Nicholson: “Se ce la fai qui, ce la puoi fare ovunque”.