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sei nazioni 2023

In Scozia, l'Italia del rugby vive l'ennesimo psicodramma. È ora di un cambio di rotta

Alessandro Ferri

Finisce con un doloroso 26- 14 per gli scozzesi, al termine di una gara giocata bene dagli azzurri che tuttavia non hanno saputo sfruttare le occasioni. Come troppe volte è accaduto nelle ultime uscite. La nazionale chiude il torneo con 5 sconfitte, ma in vista della Coppa del mondo non è tutto da buttare, anzi

È difficile fare i conti con se stessi prima ancora che con gli avversari. Tracciare una linea a fine corsa, scrivere un bilancio, riflettere su cosa c’è stato di buono e cosa è mancato. Per l’Italia del rugby è difficile sempre, perché è in una competizione che l’anno prossimo raggiungerà un quarto di secolo e dal giorno uno si confronta con le migliori formazioni d’Europa. Solo che esistono momenti di svolta che incidono su un contesto di crescita.

 

Ecco, l’Italia, al momento, non sa coglierli quasi mai. Al minuto 78 di Scozia-Italia, gli Azzurri erano nei 5 metri scozzesi, avevano un calcio di punizione, il secondo consecutivo, ed erano sotto 19-14, con l’opportunità di segnare sette punti e vincere a Murrayfield, otto anni dopo l’ultima volta. Al minuto 81 uscivano dal campo scrollando il capo, raccogliendo i frutti di una partita preparata bene, giocata male, gestita peggio, dopo una meta in ripartenza di Blair Kinghorn, la terza personale, trasformata dallo stesso numero 10, che ha fermato il punteggio su un 26- 14 doloroso.

 

È uno psicodramma che si ripete, è l’eterno ritorno di una gara in cui sei lì nonostante gli errori, vuoi per fortuna, vuoi per intuizione, come quando Paolo Garbisi si inventa un calcetto per Allan che segna, ma che finisce sempre, inevitabilmente, male. Michele Lamaro, più capitano che mai, inizia l’intervista post-partita dicendo “Eh, è quello che ci diciamo sempre”.

Un refrain triste, che prende il sopravvento su tutte le valutazioni e le analisi tattiche fatte dopo, e che esce dalla bocca di un giocatore che al pari dei suoi compagni ce l’ha messa tutta, ma nulla ha potuto contro una china che è così, c’è poco da discutere. Per la prima volta in questo Sei Nazioni l’Italia ha giocato un primo tempo di lotta e non ha lasciato del tutto il passo a degli avversari che l’hanno messa in sofferenza, e che sofferenza, in mischia chiusa. La prova è il cartellino giallo a Marco Riccioni. Il pilone, titolare nei Saracens, una delle squadre più forti del mondo, non riesce a prendere le misure con Pierre Schoeman. Falli reiterati, ammonizione giusta, la Scozia gioca, usa a suo vantaggio una sua mezza indecisione per mettere fuori tempo la difesa e segna con Duhan Van Der Merwe. Facile, concreto, tremendamente efficace. Si dirà “eh, ma l’Italia non vince mai, ma l’Italia del rugby sa solo perdere, ma così non si va da nessuna parte”.

 

Valutazioni tanto superficiali, che testimoniano come l’abitudine sia una bestia culturale da combattere tanto quanto gli errori in partita. È stato un Sei Nazioni migliore di quello dell’anno scorso, anche se il 2022 ci ha portato la vittoria di Cardiff e il 2023 ci ha visti con 0 vittorie. Lo è stato perché la voglia di bruciare le tappe è stata irregimentata e messa a sistema, dietro i dettami di un uomo, Kieran Crowley, che in teoria dovrebbe lasciare dopo la Coppa del Mondo, ma che ora fa pensare “è proprio necessario che vada via?”. C’è tanta consapevolezza nei mezzi che questo gruppo ha, per questo è difficile mandare giù sconfitte che passano da momenti chiave non capitalizzati. E questa è la grande differenza col passato: prima gli errori erano grossolani, prima capitava spesso che l’Italia si trovasse davanti ad avversari che dominanti in lungo e in largo, senza aver spazio per abbozzare un piano di gioco. Oggi non è più così. Solo che la consapevolezza è buona come punto di partenza: forse ci si aspettava un cambio di rotta nel mezzo del torneo, forse quella touche con la Francia, quel fischio con l’Inghilterra, quel cartellino con l’Irlanda, quella partita con il Galles, quell’ultimo minuto e mezzo con la Scozia… forse, forse, forse.

 

Ora è il momento di un cambio di rotta. La Coppa del Mondo mette gli azzurri davanti a un girone praticamente impossibile da passare, poco da dire: Francia e All Blacks nello stesso gruppo sono una chimera, al momento. Ma c’è bisogno di uno sforzo collettivo di maturità, perché è vero che Roma non è stata costruita in un giorno, ma è anche vero che i romani hanno reso il mondo piccolo pensando in grande. Questi ragazzi devono a loro stessi più di quanto devono ai tifosi. Questi ragazzi hanno la responsabilità di avere un talento spropositato al servizio di uno sport che non regala niente a nessuno, in un momento in cui everything, everywhere, all at once, c’è la possibilità concreta di infilarsi nel circolo ristretto di chi vince spesso. Poi, se vogliamo essere precisi, neanche la Scozia ha mai vinto il Sei Nazioni e la Francia ha impiegato 44 anni (e 25 edizioni, viste le interruzioni e a causa delle due guerre mondiali e l’esclusione negli anni 30) per vincere il primo Cinque nazioni. Ci vuole solo tempo. Il problema è che la dannata fretta non ammette inciampi.

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