Nora Gjakova (foto Ap, via LaPresse)

Il Foglio sportivo

Il Kosovo ha trovato nel judo la strada per ripartire

Gianluca Carini

Dalle macerie alle medaglie olimpiche. Così Driton Kuka, il coach della Nazionale, è riuscito a creare una grande e vincente scuola di judo in Kosovo

Quando un mese fa Distria Krasniqi ha vinto la medaglia d’oro di judo al Paris Grand Slam 2023, c’era lui ad aspettarla all’angolo. Lui era lì anche a Tokyo 2020, quando ancora Krasniqi e Nora Gjakova salirono sul gradino più alto del podio. Era suo il petto su cui Majlinda Kelmendi si sciolse in un pianto liberatorio dopo il primo oro olimpico nella storia dello sport kosovaro, a Rio 2016. Driton Kuka c’è sempre nelle vittorie sul tatami del piccolo paese balcanico perché, più che essere il coach della Nazionale, lui è l’uomo che ha creato il judo in Kosovo.

 

“Pejë, la mia città, fu distrutta durante la guerra del Kosovo: 20mila case bruciate, compresa la mia e quella della mia famiglia. Così per un po’ dormii nel dojo (il ‘luogo dove si segue la via’, ossia la palestra delle arti marziali, ndr) che si salvò solo perché dentro non c’era nulla da bruciare”, racconta Kuka, raggiunto nei venti minuti di pausa tra un allenamento e l’altro. Il Kosovo, appena uscito da una delle ultime guerre jugoslave, non aveva molto da offrire e così “prendevo ragazzini dalle strade per avvicinarli al judo. All’inizio era molto duro, a guidarmi c’erano solo la passione e l’investimento della mia famiglia”. Driton Kuka condivide infatti la passione per il judo con i suoi fratelli, uno dei quali, Agron, è l’attuale presidente della federazione kosovara. 

 

Classe 1971, Kuka da giovane è stato una leggenda del judo jugoslavo: più volte campione nazionale e con ottimi traguardi anche oltre i confini jugoslavi, la sua ascesa si fermò bruscamente prima delle Olimpiadi di Barcellona del 1992. Di fronte all’inizio dei conflitti che insanguineranno per un decennio i Balcani e in protesta contro le politiche di Slobodan Miloševic, “insieme ad altri miei compagni decisi di non partire per le Olimpiadi e il mio sogno si interruppe”.
Iniziò quindi la sua carriera da allenatore a Pejë (Pec in serbo), città nella parte occidentale del paese, abitata in prevalenza da albanesi ma vicina al monastero serbo-ortodosso di Decani, dichiarato patrimonio dell’Unesco. “All’inizio ci finanziavamo da soli, dopo abbiamo iniziato a ricevere sostegni dal governo, anche perché i risultati che ottenevamo aiutavano a far conoscere il nostro paese nel mondo”. Il passaggio da grande judoka a coach leggendario però non era scontato. “Questo è uno sport specifico, serve lavorare duro, ma con intelligenza. Quando ero giovane ero un bravo atleta e ovviamente conoscevo bene la tecnica, ma non era sufficiente diventare un buon insegnante: per questo all’inizio mi sono formato con il mio amico sloveno Marian Fabian, ma sono andato una trentina di volte in Italia, Francia e Germania, paesi molto forti a livello di judo. Devi vedere e imparare, sapendo che se vai da un grande allenatore non verrà certo a svelarti i suoi segreti”. Il grande tecnico negli incontri è però soprattutto uno stratega: un match di judo “è una piccola guerra, e la combattono le atlete che si sfidano ma anche i coach con le loro tattiche”.
La prima judoka a far parlare di sé a livello internazionale è stata Majlinda Kelmendi. Classe 1991, nel 2012 partecipò alle Olimpiadi di Londra con la nazionale albanese (quella più vicina per i kosovari albanofoni), dopo il rifiuto da parte del Comitato olimpico di ammettere il suo paese ai Giochi. A causa del suo status, in precedenza Kelmendi era stata al centro di varie offerte (alcune economicamente molto vantaggiose) da parte di altre nazionali, tutte prontamente rifiutate nella speranza di gareggiare un giorno con la bandiera blu, oro e bianca. Sogno che si realizzò finalmente a Rio 2016, coronato dal trionfo finale contro l’italiana Odette Giuffrida. L’oro olimpico fu replicato cinque anni dopo da Nora Gjakova e da Distria Krasniqi.
L’aspetto più sorprendente è che tutte queste atlete  vengono da Pejë, o meglio dalla zona di Asllan Ceshme, il quartiere della palestra di Kuka. Difficile spiegare una concentrazione così alta di talenti in un’area tanto ristretta. “Passione, grande amore per il Kosovo e duro lavoro”, è la formula che individua Kuka, il quale ha una risposta pronta anche sui differenti risultati tra uomini e donne per quanto riguarda il judo nel suo paese: “Le donne lavorano più duramente e sono pronte a sacrificare ogni cosa per raggiungere l’obiettivo. Gli uomini invece vogliono vincere, ma anche bersi una birra ogni tanto e fare tardi la sera. Adesso abbiamo un campione europeo (Akil Gjakova, fratello di Nora, ndr), ma ovviamente non è ancora al livello di Kelmendi e delle altre”.
Kuka ha ricevuto un premio alla carriera nel 2021 dalla Federazione internazionale di judo: quell’anno il Kosovo, oltre ai due ori olimpici, era stato il paese più vincente agli Europei di Lisbona. “Per quanto riguarda il mio lavoro, ho ottenuto tutto quello che potevo chiedere. Siamo partiti dalla strada e siamo arrivati alle Olimpiadi: da questo punto di vista, i miei sogni sono stati tutti realizzati. Adesso spero che lo sport faccia anche da apripista rispetto alle questioni politiche”. Il Kosovo è una nazione giovane, ma con una storia e un presente travagliati: autodichiaratosi indipendente dalla Serbia nel 2008, non è ancora riconosciuto, tra le altre, da Cina, Russia, Grecia e Spagna. Dentro il paese opera la Kosovo Force (Kfor), la missione internazionale guidata dalla Nato per garantire la sicurezza e la stabilità del paese, con l’impegno anche dei Carabinieri italiani. “Spero che coloro che si oppongono all’indipendenza del Kosovo possano cambiare idea. Stiamo lavorando per costruire il nostro futuro come una nazione europea”, dichiara Kuka, prima di concludere: “Il mio sogno ora è di essere un giorno parte nell’Unione europea e nelle Nazioni Unite, dentro uno stato libero e riconosciuto da tutte le nazioni”.
 

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