in panchina
"Il calcio è responsabilità". Intervista a Fabrizio Castori
"La cosa che mi fa più arrabbiare è l'apatia: quelli che sono apatici con me non giocano". L'allenatore del Perugia si racconta e ci spiega perché "questa moda di copiare il calcio spagnolo l’abbiamo pagata"
La tentazione più grande sarebbe raccontare Fabrizio Castori come il bravo nonno, il buon padre di famiglia, l’uomo vicino agli altri. "Io sono un animale. Da panchina". Precisazione: "Sono anche uno che nella vita ha cercato di essere un padre con la testa sulle spalle e una persona integra. Ma non fatemi passare per un fighetto. Ho il veleno addosso". La vita di uno degli allenatori più vincenti del calcio italiano che da oltre quarant’anni conquista promozioni (10), salvezze, leggende e miracoli la trovate tutta nel suo bel libro “Fabrizio Castori. La storia di Mister Promozioni” (scritto con Massimo Boccucci e Simone Paolo Ricci, ed. Minerva). Dentro ci sono l’emozione e il racconto, le vittorie (dalla Terza categoria alla Serie A), i record (oltre 1.350 panchine, 526 in B primato tra quelli in attività e dietro solo a Eugenio Fascetti e Guido Mazzetti), e gli intrecci di quel destino da cui, diceva Maria Callas, non puoi uscire. Casta Diva e il “Cholo" Castori ("Così mi chiamavano a Carpi" e come ha detto pubblicamente di lui Fabio Capello) hanno però una sola cosa in comune: il talento. Quello di Castori è fatto di sudore e fatica. Ha una strada intitolata ad Ascoli, un fan club a Cesena. È l’uomo che ha portato il Carpi in A. Ma niente orpelli: "Con me i giocatori devono dare tutto".
Castori, lei ha capito chi è il bravo allenatore?
"No, e poi non mi piace fare il professore. Io sono me stesso, vado avanti con la mia metodologia, con le mie idee. So di avere un'idea di calcio ben definita, e questo non è poco".
Pensa di aver portato qualcosa di nuovo?
"Il calcio non lo ha inventato nessuno. Seguo un mio credo. L’ho fatto da autodidatta, mi piace definirmi così. Portando modifiche, correzioni, cambiamenti di volta in volta. Però non ho inventato nulla. Non sono un riflessivo, sono un tipo pratico. Forse un mezzo matto".
Niente filosofie alla moda.
"Uno che mi conosce bene dice che ho la capacità di sintetizzare quello che succede, di leggere immediatamente le cose. Secondo me un allenatore non può essere molto riflessivo. Devi avere immediatezza, velocità di pensiero. Quando stai in panchina devi prendere una decisione in pochissimi istanti".
Cosa non le piace del calcio di oggi?
"Il palleggio. Ma finché si gioca così io alleno (e ride ndr). Un altro che mi conosce bene mi dice sempre: 'Mister, non cambiare mai. Alleni fino a ottant'anni'. Questa moda di copiare il calcio spagnolo l’abbiamo pagata. Io non l’ho mai fatto".
Di anni ne ha sessantotto, vuole allenare fino a ottanta?
"Il calcio mi piace, non mi sento appagato. E questo è un motore, una passione che sento dentro. Forse è davvero un veleno che ho in circolo perché ho la stessa passione di tanti anni fa e quindi vado avanti".
Il calcio come lo ha incontrato?
"Da piccolo avevamo solo quello. Si giocava davanti a casa, ma il pallone di cuoio, quello buono, ce l’aveva solo il prete. E allora si andava all’oratorio, che è stata una palestra. Se volevi il pallone vero dovevi andare lì, altrimenti usavi gli stracci".
Castori da dove arriva?
"Nonno era un trovatello. Al convento gli diedero il cognome Castori. Poi ha avuto sei figli, tra cui anche il mio babbo. La mia ricchezza è stata la povertà. Babbo ha fatto l’operaio, mamma la sarta. Facevano i sacrifici, lavoravano per tirare avanti. E non ci hanno mai fatto mancare nulla. Quando ho vinto il campionato con la Salernitana e siamo in andati in A mi hanno detto che forse in carriera non ho guadagnato abbastanza. Ho risposto che se penso a quello che guadagnavano i miei genitori, che si alzavano alle 6 e lavoravano tutto il giorno, io mi sento un privilegiato. Le mie radici le ho avute sempre bene impresse. Nasco da una famiglia che aveva meno di zero".
Lei all’inizio lavorava e allenava. Che significato ha per lei il lavoro?
"Era basilare, io campavo la famiglia con quello. Poi sono cresciuto perché vincevo i campionati. A un certo punto è stata decisiva mia moglie. E’ stata lei che mi ha convinto a lasciare il lavoro per allenare e basta il Lanciano. Era il 1998, eravamo in Interregionale, la Serie D. Avevo tre figli piccoli. Era una follia. Senza incoraggiamento non lo avrei mai fatto. Mia moglie mi ha dato la spinta, poi io ci ho messo la determinazione e la cattiveria. Sono tosto, cerco di impormi le cose, ho forza di volontà, la cosa che mi contraddistingue è quella. La responsabilità è diventata la mia forza, non mi sono messo alibi, non avevo la scialuppa di salvataggio. Mi sono concentrato in maniera molto determinata su quella che era diventata la mia occupazione".
Ci parla di sua moglie?
"Siete matti? Poi non mi parla per una settimana. No, lei è molto riservata. Ci siamo conosciuti da piccoli, siamo sempre stati insieme. Anche lei ama lo sport, faceva atletica. Però è molto riservata".
Castori, lei crede in Dio?
"Sì, è un punto di riferimento. A un anno ho avuto una meningite fulminante, andai in coma. Mamma era una donna di fede, pregò San Pacifico, nel giro di sette giorni superai quella cosa. Me lo ha sempre raccontato lei come una storia, una favola, ma è stato un miracolo".
E nel destino ci crede?
"Metà e metà. A volte ce lo facciamo anche noi, il destino. Però un po’ sì: il destino ti apre una strada. Poi tu ci devi entrare. Io non sapevo cosa volesse dire fare l’allenatore. Io mi sono sposato a vent’anni, avevo già una figlia piccola e questo ha cambiato un po’ gli orizzonti. Dopo Ragioneria mi ero iscritto all’Università, Lingue. Poi sono andato a fare il militare e quando sono tornato, tramite il calcio, mi sono trovato un lavoro. Il presidente della squadra in cui giocavo mi portò in un calzaturificio e poi in una fabbrica di confezioni di alta moda, una ditta con 165 dipendenti. Dopo ho fatto il commerciante in proprio. Tolentino era il centro mondiale della pelletteria. Per dire: ogni incontro ti cambia".
I suoi incontri?
"I presidenti Giorgio Bottacchiari che mi portò in Prima categoria e Ivano Ercoli del Tolentino, a loro mi lega un rapporto di amicizia. E Angelucci del Lanciano: lui mi convinse a lasciare il lavoro. Era una persona seria. Il terzo anno, dopo la vittoria della D, mi chiamò e mi disse: 'Guardi, lo so che ha richieste importanti. Lei conosce le mie condizioni di salute'. Aveva un tumore. 'Io comincio con lei e con lei voglio finire. Un bel morir darà lustro a tutta la vita', disse. Mi alzai, gli diedi la mano e dissi ok, rimango. C’era il Cesena che mi voleva, mi offrì anche il doppio. Ma avevo dato la parola. E a Cesena ci sono andato l’anno dopo. Un altro importante è stato Edmeo Lugaresi. Lui parlava romagnolo, che per i romagnoli è una lingua mica un dialetto. Aveva un’intelligenza incredibile. Aveva lanciato Sacchi, Lippi, Radice. La storia del Cesena è piena di grandi. Anche Bagnoli. Lui mi diceva che mi voleva bene, che gli piacevo molto. Mi paragonava a Bagnoli perché sono uno semplice e diretto".
Ma un allenatore deve farsi odiare dai suoi giocatori o deve essergli complice?
"Amico no, odiato nemmeno. Deve essere rispettato, fare il suo ruolo. Un allenatore deve essere convinto per essere convincente. Se riesce anche a entrargli nel cuore si vincono i campionati. A Carpi, con la promozione in A, abbiamo fatto una cosa irripetibile, da storia del calcio. Con i rapporti forti con i giocatori si ottengono i risultati importanti. Anche le salvezze, guardate che quelle sono come vincere un campionato. A Trapani stavamo a undici punti dalla salvezza. Riesci solo hai un certo rapporto con i giocatori".
Pensa che i calciatori di oggi abbiano lo stesso valore del sacrificio?
"Non come noi. E’ l’evoluzione dei tempo. Sono quarantatrè anni che alleno, ho viste diverse generazioni. Ai cinquantenni di oggi dico che a volte per loro bastava uno sguardo, mi vedevano come un padre. Oggi non c’è quel rapporto affettivo. Ce n’è uno più commerciale, più professionale ecco. Il sentimento e l’affetto sono venuti meno, sono sentimenti affievoliti. Naturalmente non voglio fare di tutta l’erba un fascio".
Di un giocatore cosa la fa più arrabbiare?
"L’apatia. Ma quelli che sono apatici con me non giocano. Ho avuto sempre questa cultura del lavoro importante. La curiosità. La passione mi ha spinto a studiare. Per esempio, ho sempre fatto io la preparazione atletica per le mie squadre. L’ho studiata e modificata. Ho scritto dispense, e ho tutto raccolto, ogni argomento, lo tengo per me perché non voglio spettacolarizzare. Ma ogni argomento è analizzato e scritto. In allenamento una volta uno mi dice: 'Mister, lavoriamo troppo, sono stanco'. 'Dai tutto che domenica ti faccio riposare'. Era un titolare. Pensava che scherzassi, invece l’ho lasciato in panchina. Non si è mai più lamentato".
Niente tecnologia?
"Come no? Certo. Guardi che io nel 1973 frequentai un corso da programmatore elettronico. I computer non erano mica diffusi, ma avevo capito l’importanza. Volevo capire, e sono diventato programmatore Cobol. Oggi il tecnologico del gruppo è mio figlio. Io seguo, ci sto dietro, me la cavo. Non sono malato. La tecnologia è molto importante nel mio lavoro: match analysis, droni, riprese, animazioni per vedere i movimenti".
Lei ha un modello?
"Gli allenatori della mia generazione avevano due modelli: Sacchi e Zeman. Arrigo quando l’ho conosciuto ho come realizzato un sogno. Ho cercato di imparare molto da lui. Mi rivedevo nel suo calcio. Voglio fare un calcio verticale, amo quel calcio lì".
A Coverciano frequentò il corso con Zenga, Mancini… Lei venne presentato come “Castori, la meritocrazia”.
"Mi sono guadagnato tutto vincendo i campionati, provando a raggiungere gli obiettivi. Giocare bene o vincere? Dico vincere, è quello che mi dà gusto. La meritrocrazia per me è la mia storia, la storia della mia vita".
E il calcio è meritocratico?
"No, non lo è".