ciclismo
Il Giro delle Fiandre di Pogacar è una corsa generazionale
Lo sloveno ha attraversato la linea di arrivo della Ronde con Mathieu van der Poel sullo sfondo. Una corsa che può essere sintetizzata in un "meraviglia"
Tadej Pogacar aveva detto che avrebbe voluto arrivare a Oudenaarde da solo. Perché per gustarsi al meglio certe corse, la vittoria di certe corse, è meglio arrivare da solo. Tadej Pogacar è arrivato sotto lo striscione d’arrivo a Oudernaarde da solo. Tadej Pogacar ha vinto il Giro delle Fiandre con un assolo iniziato sull’ultimo passaggio sull'Oude Kwaremont, superando la linea d’arrivo in un mescolio di gioia e commozione, con Mathieu van der Poel sullo sfondo, sedici secondi dopo. Lo ha fatto dopo una corsa che può essere riassunta in una sola parola: meraviglia.
E si potrebbe chiuderla qui. Con un meraviglia.
Perché tanto basterebbe, nulla più servirebbe. Vederlo non è stato un sentimento improvviso e gradevole di ammirazione spontanea e intensamente compiaciuta? Cosa c’è davvero da aggiungere?
Un consiglio soltanto: rivedetevela, o se non l’avete fatto vedetevela. Dall’inizio.
Perché il Giro delle Fiandre 2023 è un racconto che non ha momenti di stanca, nessun momento morto, una trama degna di uno scrittore che sa come confezionare una trama, uno di quelli alla Raymond Chandler o James Ellroy o Jean-Claude Izzo, gente che sa tenere i lettori incollati alle pagine, che dosano cose che succedono, non succedono, riflessioni, pause, azione, vita, morte. Di miracoli no, non servono.
Nemmeno il Giro delle Fiandre è un miracolo. Tutt’altro. È una corsa generazionale, a immagine e somiglianza di un manipolo di corridori ai quali bisognerebbe voler bene in modo incondizionato. Tutti. E chissenefrega del tifo, delle preferenze personali, della nazionalità o di qualsiasi altra cosa. Non conta nulla. Conta solo quello che fanno in corsa. Quel modo strepitoso di lottare, inseguire, attaccare, scattare, staccare. Vivere sogni in bicicletta. Anche sulle pietre, soprattutto sulle pietre.
Primo Tadej Pogacar. Secondo Mathieu van der Poel. Terzo Mads Pedersen. Quarto Wout van Aert. E forse è mancato solo Wout van Aert sull’Oude Kwaremont quando lo sloveno ha allungato, salutando tutti.
Eppure la sua assenza non si è sentita, perché non era un’assenza era una presenza defilata. C’era sull’Oude Kwaremont al penultimo passaggio, c’era sul Paterberg pochi minuti dopo, c’era sul Kwaremont, poi ha accusato sul Kruisberg/Hotond. S’è perso la parte finale di quel bellissimo e disperato inseguimento a un gruppetto di avanguardisti che non aveva la minima intenzione di arrendersi. Perché va così ormai. Nessuno ha voglia di fare la parte della vittima sacrificale. Non lo possono fare. Ci sono una mezza dozzina di talenti straordinari? Beh si diano da fare, si cerca l’anticipo, cavoli degli altri.
Lo ha messo ruote su asfalto Mads Pedersen. Poteva essere una grande idea, non lo è stata solo a causa di un Pogacar che aveva già iniziato a far la battaglia a oltre cinquantacinque chilometri dall'arrivo. Con il senno del poi erano soltanto prove generali di solitudini.
Il danese sapeva di dover anticipare, c’aveva provato da lontano, o meglio dalla giusta distanza, perché ormai quello che fu da lontano, da lontano non lo è più. Il ciclismo s’è allungato, stiracchiato, ha aumentato il tempo della lotta e con questa la libidine di chi segue le corse, calibra la vita sociale con quella ciclistica con quella televisiva (o a bordo strada). Veniva voglia di spingerlo con urrà allez applausi, ma veniva voglia di spingere pure Tadej Pogacar all’inseguimento o Mathieu van der Poel all’inseguimento dell’inseguimento. Poi Tadej Pogacar ha fatto quello che sa fare, dipingere un capolavoro con pochi colori, rendere reale il surreale e surreale il reale, farlo in ogni caso con la grazia dei grandi artisti.
La cosa bella di questo Giro delle Fiandre, e degli ultimi anni in generale, è che non è necessario scegliere a chi indirizzare gli urrà gli allez gli applausi. Li si buttano là nel mezzo e non frega nulla chi li raccoglie.