Serie A
Il binario triste e solitario di Simone Inzaghi
L'allenatore dell'Inter assomiglia sempre di più a un dead man walking, il caprio espiatorio perfetto
Quando risultava difficile prevederne l’andamento addirittura nel corso della stessa partita, mutevole come il clima in certe giornate di marzo, la chiamavano “pazza Inter”, un aspetto divenuto così identitario da finire in un inno. Ma gli anni passano e le cose cambiano. Da qualche settimana, per non dire qualche mese, l’Inter è finita nel peggiore imbuto possibile per una squadra tecnicamente ancora in corsa su due fronti e mezzo: quello della prevedibilità. A una partita giocata con abnegazione e attenzione ne segue generalmente una svagata, pasticciata, piena di errori in ogni parte del campo. E sistematicamente, a bordo campo, si staglia una figura allo stesso tempo nervosa e rassegnata: dopo quasi due anni di Inter, Simone Inzaghi somiglia sempre di più a un dead man walking. Numeri alla mano, la stagione nerazzurra potrebbe essere definita migliore, per esempio, di quella del Milan: un punto in meno in campionato, entrambe ai quarti di Champions League, ma con una Supercoppa in più in bacheca e una semifinale di Coppa Italia ancora aperta. Ma nel momento di peggiore difficoltà, Stefano Pioli ha avuto un paio di guizzi che ci hanno ricordato della sua presenza, cambi di rotta improvvisi anche soltanto per ricordare a tutti di essere il tecnico campione d’Italia in carica (medaglia non di poco conto da poter mettere al petto, a differenza di Inzaghi).
L’allenatore dell’Inter, invece, prosegue sul suo binario triste e solitario: un 3-5-2 monolitico, i cambi sempre tutti uguali, l’attaccante per l’attaccante, l’esterno per l’esterno. Anche nella tumultuosa serata di martedì, nel momento in cui i nerazzurri sembravano poter trovare il vantaggio, ha deciso di richiamare Dimarco e Dzeko, che si erano resi protagonisti di un paio di spunti promettenti, per inserire Gosens e Lukaku, come se i cambi fossero preimpostati da un’intelligenza artificiale e non studiati in base alle effettive necessità del momento. Nulla contro il valore del tedesco e del belga, ma fin dall’alzata di tabellone del quarto uomo sono parsi due cambi anticlimatici, in contrasto con l’andamento della sfida.
L’impressione che trasmette l’Inter è quella di una squadra in cui il futuro rappresenta un’incognita così grande da inficiare anche il presente: chi farà parte della squadra di domani? L’allenatore, stando alle indiscrezioni, no: dall’ipotesi del traghettatore Chivu a quelle legate ai possibili eredi, Inzaghi è stato scelto come il capro espiatorio designato. Non lo salveranno i trofei raccolti fin qui, a meno di non arrivare ad alzare al cielo di Istanbul, contro ogni pronostico, la Champions League. E non lo salveranno nemmeno alcune brillanti intuizioni, come quella di reinventare Calhanoglu regista nel momento della lunga defezione di Brozovic. Proprio l’uscita dal campo del croato durante Juventus-Inter è parsa emblematica del periodo: testa scossa a favor di telecamera e sguardo ben lontano da quello dell’allenatore. Il rovente aprile interista è appena iniziato: una sconfitta con la Fiorentina e il sudato pari dello Stadium sono solo i primi due impegni di un mese che vedrà i nerazzurri in campo nove volte.
Marotta, dopo aver evidenziato che le sconfitte hanno molti padri, ha messo in atto l’ennesima difesa d’ufficio dell’allenatore: "Abbiamo fiducia in Inzaghi, c’è un rapporto fiduciario pluriennale con lui", salvo poi ricordare a tutti che il mezzo fronte rimasto aperto in campionato, il paracadute del piazzamento Champions dopo il fallimento nella corsa scudetto, è vitale per le sorti del club. "Immaginare di essere fuori vorrebbe dire rivedere tutti i piani per l’anno prossimo", ha detto prima di una partita che l’Inter ha giocato in maniera tutto sommato lineare contro una formazione che ama rendere le cose difficili agli avversari. Eppure il problema è tutto lì: è stata l’ennesima prestazione discreta, senza guizzi, senza invenzioni, senza numeri ad effetto, di una squadra che avrebbe un bisogno disperato di dare un calcio alla malinconia.
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