Il Foglio sportivo
Al Masters non rinuncia nessuno
Anche i ribelli del golf all’inseguimento della giacca verde tra le azalee di Augusta. Fino a domenica, ogni sorpresa è possibile fra i pertugi della storia
Le azalee intorno al green lasciano davvero senza fiato, ad aprile in Georgia sbocciano tutte insieme, è un’onda che vira dal bianco al rosa, come una scena dipinta da poco. Bobby Jones le immaginava così, iniziò i lavori nella primavera del 1930 per realizzare un percorso da golf senza eguali, bello e insidioso, pensato per mettere in difficoltà i migliori, ideale per selezionare ogni anno il Masters Champion of the Year. Il campo perfetto per la contesa che tutti attendono soprattutto dopo l’esodo di alcuni giocatori verso Liv Golf, il nuovo circuito saudita su 54 buche, budget favolosi, regole più televisive, ma un successo mediatico piuttosto scarso. Il denaro non è tutto e al Masters, alcuni campioni non potevano proprio mancare. Un rompicapo che Fred Ridley, il general manager del circolo, ha risolto al meglio. Contano i risultati degli ultimi 5 anni, i past winners sono invitati a vita, come i primi cinquanta del world ranking e i primi dodici dello scorso torneo, più una serie di altre categorie. Nessun nome eclatante alla fine è rimasto escluso e alcuni inviti speciali rendono più intrigante la contesa. Kazuki Higa, nuovo vincitore del tour giapponese sulle orme di Hideki Matsuyama e Gordon Sargent, diciannovenne campione Ncaa e migliore amateur internazionale. Al Masters ogni sorpresa è possibile ma i favoriti sono sempre i primi della classifica, lo yankee Scottie Sheffler, campione in carica e nuovo numero uno al mondo dopo il trionfo al Players, in cerca della rara doppietta, il nordirlandese Rory McIlroy sette volte tra i primi dieci, al suo quattordicesimo tentativo di vincere il torneo e lo spagnolo John Rahm in cerca della sua prima giacca verde per avvicinare, se mai possibile, il mito di Severiano Ballesteros, giocatore entrato nella leggenda proprio ad Augusta.
Seve non è più tra noi, ma i past winners in campo sono venti. Il clamoroso ritorno è possibile, ne conosciamo il fascino e i precedenti, Bernard Langer e Tom Watson sfiorarono l’impresa, Jack Nicklaus trionfò a quarantasei anni, Tiger a quattrordici dalla sua ultima green jacket. Qui un giocatore di esperienza ha sempre una chance in più, Sergio Garcia, Phil Mickelson, forse Bubba Watson, il creativo del gruppo, sono esempi di chi avrebbe le carte in regola per superare, con mestiere e sangue freddo, le insidie di un percorso che punisce ogni incertezza. Lo ricorda bene Francesco Molinari che nel 2019 abbandonò ogni speranza alla buca dodici. Un colpo appena trattenuto, in acqua per un soffio, consegnò il 15esimo titolo a Tiger Woods che anche quest’anno è tornato ad Augusta, ma gioca quasi su una gamba sola, per dimostrare che tutto può ripetersi. Nel suo caso è del tutto improbabile, noi d’altra parte tifiamo per la vittoria di un europeo. Nell’anno della Ryder Cup ci vorrebbe una scintilla, un Shane Lowry che sbaraglia tutti col suo tocco vellutato o un Tommy Fleetwood o un Tyrrell Hatton, alfieri della nostra squadra nella sfida di settembre a Roma o infine il talento di Victor Hovland, norvegese trapiantato negli Stati Uniti oppure un ritorno ai vertici di Justin Rose, il più altalenante golfista di sempre.
Tra gli alti e bassi di una vita sportiva, per tutti vale il desiderio di vestire la giacca verde e passa dall’incubo di veder sparire la propria pallina nelle acque torbide del Rae’s Creek o dal miraggio di passare indenni il Nelson Bridge, quel piccolo ponte in pietra che ricorda il trionfo di Byron Nelson nel 1937, il primo di sei slam a cavallo della Seconda Guerra mondiale. Superarlo senza perdere colpi può essere determinante, se domenica sei in testa alla quindici allora il successo è a un passo. Puoi giocare un wedge di conserva o rischiare l’eagle, senza mai scordare che qui lo spaccone non passa mai. Quando Bryson DeChambeau definì il percorso “un par 67, almeno per me”, le sue palline cominciarono a finire tra i cespugli.
L’Augusta National è un campo che sovrasta le volontà dei singoli. Ogni pertugio racconta una storia, il prodigioso chip imbucato da Larry Mize alla dieci nel 1987, unico tra i golfisti locali a vincere il torneo, il magnifico ferro 7 di Sandy Lyle dal bunker della diciotto, primo titolo di un golfista britannico ad Augusta e poi il memorabile albatross imbucato da Gene Sarazen da 235 yards nel 1935, ricordato ancora come “the shot heard ‘round the world”, così incredibile da spingere il campione, figlio di emigranti siciliani, a controllare tre volte, con l’aiuto di testimoni, che la pallina in buca fosse proprio la sua. Non poteva essere di nessun altro, era l’attimo fuggente che definisce ogni vittoria, sotto lo sguardo attento di Bobby Jones e delle sue azalee. Sarà così anche domenica, quando qualcuno giocherà il colpo della riuscita. Sarà qualcosa di prodigioso, molti diranno che non si è mai vista una cosa simile e noi faremo finta di crederci. Sappiamo che al Masters tutto si ripete e la sorpresa è subito tradizione. Un applauso che esplode come una fioritura e la giacca verde da indossare alle prime luci del tramonto, un simbolo da portare con orgoglio nelle stanze ovattate della club house di Augusta, ogni anno e per sempre, fino alla fine dei giorni.