Il Foglio sportivo
Il sarrismo è tornato di moda
Da incendiario a pompiere, adesso Maurizio Sarri ha riaperto alla bellezza. Contro la Juventus la sua Lazio si gioca un pezzo di Champions League
C’era una volta il sarrismo, movimento calcistico capace di farsi neologismo e ritagliarsi il suo spazio sulla Treccani: “Concezione del gioco del calcio fondata sulla velocità e la propensione offensiva; anche, il modo diretto e poco diplomatico di parlare e di comportarsi che sarebbe tipico di Sarri”. Correva l’anno 2018, il Napoli si era appena illuso di poter salire sul tetto d’Italia grazie a un modo di intendere il gioco lontanissimo dai canoni della nostra tradizione. Maurizio Sarri era diventato emblema della gavetta e artefice di un laboratorio calcistico di livello altissimo, mantenendo i crismi del rivoluzionario. Partito incendiario e fiero, però, si era ritrovato in fretta nei panni del pompiere, come da massima di Rino Gaetano: l’approdo alla Juventus, via Chelsea, l’aveva reso inviso alla piazza che l’aveva amato in maniera viscerale, sentitasi tradita dall’uomo del popolo andato a cena col nemico, l’abiura inaccettabile di Masaniello.
Quell’utopia partenopea, opera meravigliosa e incompiuta, se per incompiuto si intende il mancato raggiungimento dell’agognato scudetto, una Sagrada Familia calcistica progettata e realizzata da un uomo maniacale, è destinata ad affollare i giudizi su Sarri fino a inquinarli: è una rincorsa che il tecnico stesso ha smesso di affrontare, consapevole che certi picchi di bellezza sono impossibili da replicare. Ci ha provato a Torino, invano, piegandosi al peso di un organico fuori scala per la Serie A dell’epoca e conducendo comunque la nave in porto per il traguardo tricolore, senza però riuscire a fare altrettanto in Europa.
La Juventus come presa di coscienza, come momento di traumatico e consapevole distacco tra un prima e un dopo. Rimasto fermo per un anno, Sarri ha avuto tempo di metabolizzare e ha scelto una sfida apparentemente impossibile: troppo forte il lascito di Simone Inzaghi, allenatore nato e cresciuto nella Lazio lotitiana, abituato a fare di necessità virtù e a rintracciare risorse occulte in organici sempre drammaticamente troppo corti. Ha preso in mano una squadra abituata ad attaccare spazi ampi, per foraggiare al meglio i laceranti strappi creati da Ciro Immobile nelle difese avversarie; un gruppo che aveva fatto della difesa a tre l’unica ragione possibile d’esistenza; una piazza che aveva bisogno di un nome altisonante per dimenticare la fuga nerazzurra dell’uomo di Piacenza. Il primo è stato un anno di inevitabile transizione, di una Lazio che continuava a fornire recite di livello soprattutto quando assecondava la precedente versione di sé. Il secondo anno, quello che a Torino non gli è stato concesso, ha dato vita a qualcosa di totalmente diverso.
“Aprite le porte alla bellezza”, recitava il video con cui i social biancocelesti celebrarono l’arrivo del nuovo tecnico. Eppure chi guarda la Lazio di Sarri cercando al suo interno il germe che alimentava quel meraviglioso Napoli ne rimane deluso, per certi versi addirittura spiazzato. Il giro palla quasi mai tocca quella velocità, quel grado di coinvolgimento supremo degli uomini disposti sul campo e, per osmosi, di quelli seduti sugli spalti. Ma non si può non notare il movimento organico e armonico di una linea difensiva che è stata rigenerata dal mercato estivo: Casale e Romagnoli rappresentano una coppia rodata, capace di lavorare di reparto, possibile ispirazione anche per la Nazionale di Mancini.
Nella Lazio miglior difesa del campionato c’è la mano di un tecnico che appare diverso dal passato anche senza essere davvero cambiato. Basta riprendere i dati del suo Napoli per riscoprire l’importanza capitale della fase difensiva. La lezione appresa da Sarri al Chelsea e alla Juventus è che la rivoluzione deve passare inevitabilmente dalle risorse che si hanno a disposizione: snaturare le caratteristiche degli uomini d’attacco della Lazio sarebbe controproducente per il reparto difensivo. Il pressing aggressivo del Napoli sarriano, abbozzato in maniera pasticciata nella scorsa stagione con esiti disastrosi, è un lontano ricordo: non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, il continuo paragone non fa che fuorviare.
Nella stagione biancoceleste rimane un grosso neo, impossibile da trascurare: la gestione delle coppe europee. Eliminata in maniera rocambolesca dall’Europa League, in un girone con quattro squadre finite a pari punti condito da un terribile rovescio subito in casa del Midtjylland, la Lazio si è abbandonata alla corrente in Conference League, affrontata con insopportabile leggerezza, rischiando già contro il Cluj prima di venire spazzata via dall’Az Alkmaar. Rivisto con il senno di poi, sembra il frutto di un calcolo spietato: adesso Sarri può fare quello che gli riesce meglio, allenare i suoi durante la settimana, allo stesso tempo pregio di un tecnico d’altri tempi e lacuna per chi ambisce ai vertici.
Questa Lazio poco seducente e molto organizzata sta avendo pochissimo da Immobile, alle prese con l’usura degli anni che passano, e dal post Mondiale non ha nemmeno il sostegno del miglior Milinkovic-Savic, che spera di essersi lasciato il peggio alle spalle con la bellissima punizione calciata a Monza. Ma c’è anche chi sta elevando il proprio rendimento: dall’inizio del 2023, Sarri può contare su un Luis Alberto mai visto prima. Lo spagnolo, a lungo ritratto dell’indolenza, sta dando una sostanza senza precedenti al centrocampo biancoceleste, mettendo in mostra una determinazione che in pochi sembrano volergli riconoscere, così assuefatti ai suoi lampi di genio da non notarne il lavoro sporco.
Lazio-Juventus, che chiude il turno del sabato pasquale, difficilmente appagherà gli amanti del bello. Può sembrare un paradosso ripensando a quando la Juve scelse Sarri per portare i bianconeri verso una nuova direzione: doveva essere l’uomo in grado di trascinare la Vecchia Signora nella modernità, era stato invece l’ultimo a vincere lo scudetto con un calcio così diverso da quello al quale aveva abituato tutti da venire rigettato dalla Juventus stessa, espulso come un corpo estraneo per regalarsi il brivido della scommessa Pirlo, salvo poi tornare allo status quo allegriano. È una sfida che vale un pezzo di Champions per la Lazio, aggrappata all’ingresso nelle prime quattro come un obbligo morale, dopo il flop europeo, e come necessità vitale per il mercato del prossimo anno; per la Juventus, invece, può diventare un piccolo rimpianto, perché i frutti del secondo anno di Sarri, a Torino, non li ha raccolti nessuno.