Il Foglio sportivo
Vizi, virtù ed eccessi di Walter Sabatini
“Noi direttori sportivi siamo in via di estinzione: oggi i proprietari stranieri non ci vogliono più. Deluso da Totti. Quanti farmaci ci facevano prendere”. L'ex dirigente di Lazio, Roma, Inter e Samp (fra le altre) si racconta
“Ho cominciato a tirare calci a un pallone la prima volta che l’ho avuto sotto gli occhi. Come calciatore ero tecnicamente fortissimo ma completamente disconnesso dalla squadra e dagli schemi tattici. Da questo punto di vista ero un somarone. Giocavo le mie personalissime partite, piene di orpelli, finte e controfinte, ma ci sapevo fare, questo è sicuro”.
Walter Sabatini, umbro di Marsciano, sessantasette anni corsi all’impazzata, senza risparmiarsi mai niente, racconta senza freni la sua straordinaria avventura nel calcio, che per lui è stato il vizio, a cui non è riuscito a rinunciare. Come le sigarette e le notti brave. È diventato famoso, come geniale e “maledetto” dirigente sportivo di Lazio, Palermo, Roma, Inter, Sampdoria, Bologna e Salernitana. Prima, come calciatore, aveva militato nel Perugia, dove conosce Paolo Sollier e Renato Curi, il compagno di squadra che il 30 ottobre 1977 muore sul campo, durante una partita contro la Juventus…
“Renato mi ha introdotto al dolore vero. Un dolore fatale che a distanza di quasi mezzo secolo ancora vive dentro di me. Un’indimenticabile sofferenza. Nella mia stanza c’è una foto che ogni giorno me lo ricorda così come era. Paolo mi ha avvicinato alle verità della vita e mi ha fatto vedere il mondo da un altro lato. È stato un grande compagno di squadra. Uno che un giorno mi ha invitato a leggere “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez, perché era convinto che mi avrebbe fatto bene. Aveva ragione”.
Sollier era un uomo di sinistra. Lei ha detto una volta di avere il cervello di sinistra e il corpo di destra…
“Nei miei ragionamenti sono un uomo di sinistra. Non lo sono nelle mie reazioni eccessive che arrivano dal corpo. Penso come un uomo di sinistra. Agisco in tutt’altra maniera”.
Lei è stato radiato e poi riabilitato. Un’onta? Un’ingiustizia? Che cosa è stata?
“È stata un’ingiustizia, anche se capisco che ogni accusato si appella all’ingiustizia. Non sono, quindi, molto originale, ma è stata una vera persecuzione, andata in scena in un momento particolare del calcio. Ho scontato la squalifica, soffrendo sino all’ultimo giorno. Sino a quando il Coni non ha ribaltato tutto”.
Di che cosa la accusavano?
“Di aver tesserato un minorenne extracomunitario. Una cosa fantascientifica. Io ho resistito con tutte le mie forze e, quando l’incubo è finito, sono ripartito con ancora più fiducia nelle mie qualità, soprattutto morali. Quella vicenda non ha intaccato la persona onesta che sono sempre stato. Credo di avere, come mia prerogativa, un grande senso etico”.
Un senso etico, che non le ha impedito di vivere una vita alquanto sregolata.
“Nelle mie cose sono stato eccessivo, ma era la mia vita e non rinnego niente”.
Quanto sono state importanti le donne nella sua vita?
“Sono state importantissime. Le donne hanno una marcia in più. Io le adoro, ma da un punto di vista ideologico”.
L’adorazione delle donne è sempre stata ideologica, o è una novità del presente?
“Una volta effettivamente c’era anche la pratica. Resta il fatto che ho un’ammirazione sconfinata per le donne, che considero intellettualmente di gran lunga superiori agli uomini. Le donne sono il più incredibile motore di vita”.
Lei è entrato a testa bassa nella polemica sul doping che in passato sarebbe stato utilizzato nel calcio…
“Non parlo di doping, perché non ho indizi e, tanto meno, prove di effetti dopanti. So, però, che c’era un uso dei farmaci per così dire allegro. I farmaci erano tanti e frequenti. Ci venivano somministrati durante la settimana e prima della partita. C’era un uso indiscriminato di farmaci e posso dirlo con cognizione di causa perché negli anni a cavallo fra il Settanta e l’Ottanta io giocavo. La cadenza delle somministrazioni era quotidiana. Il neoton, i cardiotonici e quelli che i medici definivano ricostituenti. C’era di tutto”.
Pensa che il doping, o meglio quello che lei chiama abuso indiscriminato di farmaci, sia un fenomeno solo del passato?
“Sono cambiati i calciatori. Oggi, a differenza di un tempo, sanno proteggersi. Nessun calciatore attuale si fa fare un’iniezione intramuscolo a cuor leggero. Vogliono sapere preventivamente tutto del farmaco e molto spesso, nonostante ogni spiegazione e rassicurazione, non ci si riesce ugualmente. Un tempo i giocatori facevano tutto. Non serviva neppure il medico per convincerli. Bastava un semplice massaggiatore. Oggi i calciatori hanno un’altra coscienza, altri scrupoli e, diciamolo pure, un’altra cultura”.
Quale è il calciatore che ha amato di più?
“Da ragazzo e da tifoso, prima di ogni altro veniva Gianni Rivera. Dopo di lui c’è stato Gigi Meroni. Rivera e il Milan degli anni Sessanta erano, pure perdenti, grandi e belli, come un ideale”.
Qual è stato il suo miglior colpo nelle operazioni di mercato? Pjanic? Salah?
“Il colpo più importante penso che rimanga Marquinhos, acquistato a 4 milioni e rivenduto a trenta, solo pochi mesi dopo. Non aveva ancora compiuto 19 anni. È stato un colpo magistrale”.
E il flop più clamoroso?
“I flop sono stati persino troppi e non ho voglia di ricordarli. I flop non sono solo i calciatori acquistati che non hanno reso, ma anche gli acquisti che ho mancato. Considero, per esempio, un grande flop non essere riuscito a chiudere il contratto di Adrien Rabiot. L’avevo in mano e all’ultimo istante, per motivi contingenti, l’ho perso”.
Ha fatto pace con Totti?
“Io con Totti non ho mai litigato. In quel periodo non era facile gestirlo perché si accendevano di continuo scintille fra lui e Spalletti. E io, ovviamente, stavo dalla parte dell’allenatore. Fra Totti e me c’è sempre stato rispetto, anche se da lui mi sarei aspettato di più nei rapporti e nella comunicazione con la squadra. Pensavo che, come leader e come uomo carismatico, avrebbe potuto costruire intorno a sé una granitica coesione e un comune ideale”.
Il problema più grande del calcio sono i procuratori o i presidenti?
“I procuratori non sono il problema più grande, ma un problema, sì. I problemi del calcio di oggi sono tanti, a partire dalla figura del direttore sportivo, di cui non sono più chiari ambiti e competenze. Una cosa è certa. Le nuove proprietà straniere non vogliono i direttori sportivi per oscuri motivi che forse tanto oscuri non sono. Preferiscono affidarsi allo staff e ad altri sistemi di valutazione dei calciatori, perché pensano, ed è un grande errore, che il mestiere dei direttori sportivi si esaurisca nell’acquistare e vendere giocatori. Non è così. Il direttore sportivo non è un mercante, ma un mediatore esecutivo. È lì tutti i giorni. Assiste agli allenamenti, intuisce i problemi dei calciatori e dell’allenatore e, ogni volta che è necessario, interviene. Purtroppo è un ruolo che le proprietà straniere non sono in grado di apprezzare e, conseguentemente, quella del direttore sportivo si avvia a essere, se già non lo è, una specie in via di estinzione”.
La Juventus è nuovamente sulla graticola dei tribunali e della giustizia sportiva. Perché sempre e solo la Juve?
“Un motivo evidentemente ci sarà. Non sono altri uomini a metterli sulla graticola. Ci si mettono da soli”.
Qual è stato il giorno più brutto della sua carriera?
“Sicuramente il giorno in cui è morto Renato Curi”.
E quelli più belli?
“I momenti esaltanti non li ho vissuti come tali. Vorrei tornare indietro per provare tutte le sensazioni perdute”.
C’è qualche cosa che non rifarebbe?
“Tante cose non rifarei. Io sono pieno zeppo di rammarichi. Ho sbagliato tanto, ne sono consapevole, ma non mi crocifiggo, perché è stata la mia vita. Non recrimino nulla”.
Mi dica una cosa che non rifarebbe. La prima che le viene in mente…
“Ho sbagliato le formule dei contratti con l’Inter e il Bologna: non mi hanno permesso di lavorare come avrei voluto. Io sono un frontman. Non posso lavorare, come un fantasma nell’oscurità”.
Quanto sono importanti nella sua vita Fabiola e Santiago?
“Mia moglie e mio figlio sono il mio respiro. In questo particolare momento Santiago non è solo il mio respiro, ma anche la luce. La vicinanza di Fabiola mi dà tutta la sicurezza del mondo. Non voglio essere patetico, ma è così”.
Sta insieme a sua moglie da un quarto di secolo, ne è innamorato?
“Io sono più abituato a essere amato che ad amare. Non vorrei assimilarla alla signora Fantozzi, se le dico che la stimo molto”.
Lei ha attraversato la vita con l’impeto di un uragano che travolge ogni cosa. Non vorrebbe, una buona volta, abbassare i ritmi e fare pace con se stesso?
“Mi piacerebbe tanto, ma è impossibile. Io sono in conflitto perenne con me stesso”.
Il calcio è passione o malattia?
“Il calcio è un vizio e io come tale l’ho frequentato. Un vizio, come le sigarette e una notte in bianco. Come una partita a poker che non finisce mai. Un brutto vizio”.
Quanto è duro stare fuori dal calcio?
“È durissimo. È come se mi avessero sottratto una quota della mia vita, ma tornerò presto. Se non fosse possibile come direttore sportivo, mi inventerò un lavoro nuovo”.
Walter Sabatini ha ancora un sogno nel cassetto?
“I miei sogni ho avuto la fortuna di realizzarli tutti. Non c’è niente che non sia riuscito a fare. Io, lo scriva, ho avuto molta fortuna. E continuo ad averla”.