Foto A.S.O./Pauline Ballet

ciclismo

Mathieu van der Poel e la legge della Parigi-Roubaix

Giovanni Battistuzzi

Per conquistare l'inferno del nord serve pedalare il più forte possibile, stare in piedi e con le gomme gonfie. La vittoria dell'olandese e i dolori di Wout van Aert e John Degenkolb

Superata la linea d’arrivo della Parigi-Roubaix John Degenkolb si è accasciato sul prato al centro del velodromo e si è lasciato andare allo sconforto e al dolore. Dolore fisico, fa sempre male cadere su erba e pietre, soprattutto interiore: a trentaquattro anni si inizia a credere che gli anni buoni per vincere una corsa come la Parigi-Roubaix siano pochi, senz’altro sempre meno. John Degelkolb è finito a terra a sedici chilometri dall’arrivo, nel punto nel quale non doveva finire a terra. Troppo tardi la linea d’arrivo per le recriminazioni. Lo sa bene un corridore come John Degenkolb. Conosce benissimo la legge della Parigi-Roubaix, che è solo una per quanto tripartita: pedalare il più forte possibile, stare in piedi e con le gomme gonfie.

   

     

Anche Mathieu van der Poel conosce la legge della Parigi-Roubaix. L’ha rispettata al meglio. A tal punto bene che al velodromo c’è arrivato da solo, senza nessuno ad infastidirlo davvero, eppure non abbastanza distante da lasciare la doverosa solitudine nella foto di rito, quella nella quale il manubrio viene lasciato a se stesso e si mette in scena, a seconda dell’occasione e dell’interprete, gioia o incredulità, o forse il sommarsi delle due. Non è corsa nella quale si può abbandonare il manubrio la Parigi-Roubaix, anzi di solito sul manubrio ci si lascia pelle e sangue. Ci si porta sempre qualcosa a casa dal nord della Francia, quasi sempre vesciche e ferite.

   

Mathieu van der Poel al velodromo è arrivato da solo, la solitudine è la dimensione del più forte, del migliore di giornata. E van der Poel è stato interprete raffinato delle pietre francesi, tenace e intelligente, capace di leggere meglio di tutti le dinamiche di corsa, di farsi trovare al momento giusto nel posto giusto quando la Jumbo-Visma ha iniziato a fare la rivolta ben prima del luogo solito della rivolta, la Foresta di Arenberg. È lì che va in scena lo sparpaglio, non è stato così questa volta, tutto era già sparigliato già prima, perché va così ultimamente, s’è prolungato il tempo della gioia (almeno per i ciclisti da divano) della lotta.

  

Wout van Aert e i suoi uomini avevano preparato il terreno per la pasqua del belga. È da anni che van Aert in un modo o nell’altro guarda da vicino le felicità altrui e inizia a esserne infastidito. Oggi aveva provato a imbandire una ricca tavola per sé. C’era quasi riuscita. Non è andata come aveva immaginato. Sembra non possa andare mai come Wout van Aert immagina. C’è sempre qualcosa che lo riporta distanza la realtà dal sogno, e poco importa se sia un sogno legittimo, parecchio terreno. Sul finire del Carrefour de l’Arbre ci ha pensato la gomma posteriore che si è afflosciata. È la regola della Parigi-Roubaix. Ci si può fare nulla, ogni recriminazione, per quanto sensata, non conta. Wout van Aert lì ha visto sgonfiarsi anche la sua corsa.

 

È una corsa stronza la Parigi-Roubaix, che premia chi la sa amare senza remore, punisce ogni cattivo pensiero. Mathieu van der Poel non ne ha avuti, ha pedalato con cattiveria e leggerezza e alla fine ciò gli è bastato. Il ciclismo, soprattutto sul pavé, è la cosa che si avvicina più alle dinamiche dell’esistenza. Serve fare il meglio possibile, sfruttare al massimo i propri talenti. E sperare che vada tutto liscio. Chi non capisce questo, chi pensa che sia tutto merito e meritocrazia, non è degno della Parigi-Roubaix, lei va avanti a suo modo ed è un modo forse crudele, senz’altro inappuntabile.

 

Mathieu van der Poel ha festeggiato con gioia e incredulità la sua Parigi-Roubaix, la sua prima Parigi-Roubaix, ed era ora che arrivasse. Perché certi corridori devono poter esibire nella loro bacheca una pietra della Roubaix (il trofeo che viene dato al vincitore, ndr).

   

Foto A.S.O./Pauline Ballet  
     

Mathieu van der Poel ha esultato, urlato, gioito, abbracciato Jasper Philipsen, il suo compagno di squadra arrivato secondo davanti a Wout van Aert. Poi è andato a consolare John Degenkolb, che la Roubaix l’ha vinta nel 2015, che avrebbe voluta rivincerla oggi, che per amore della Roubaix ha detto “sapevo di non essere il più forte, ma ero pronto a giocarmela”. Anche questo è amore. Je t’aime Roubaix. Moi non plus.