Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA
Il linguaggio della Champions League
Il Milan in certe sere sa discutere, anche se a volte è maleducato, e il Napoli ne è risultato meno superlativo. Se l'Inter fosse una chiacchiera, invece, si formerebbe di parole complesse, che si capiscono solo col tempo
Trovo una certa assonanza tra il linguaggio parlato e quello giocato. Chi parla troppo, chi arriva al punto. Chi gioca molto orizzontale, chi si esprime in verticale. Le tre squadre italiane protagoniste in Champions hanno mostrato un calcio veloce, senza troppi fiocchi, briglie e lacciuoli. Hanno espresso una sintesi interessante, tipica del calcio inglese. Il Milan soprattutto, che ha usato una spada centrale per trafiggere un ottimo Napoli. È bastato un momento, una parola secca detta nel mezzo, un Diaz che in giravolta ha eluso le aspettative degli astanti, tre uomini rimasti a bocca aperta di fronte alla giocata dello spagnolo. E in precedenza era stato Leao a partire strappando sui polpacci, da solo, come gli piace fare. Il Napoli dava segno di superiorità nel dialogo, nella presenza, ma gli mancava il guizzo, l’anacoluto Kvaratskhelia, che fa cose all’improvviso senza una logica sintattica. Bloccato da un plotoncino di uomini, il georgiano s’impigliava nella rete e il Napoli, senza l’esclamativo Osimhen, si rendeva più prevedibile, meno definitivo, anche se bello e vivo, per nulla ansioso ma meno superlativo.
Il Milan sa discutere in certe sere. Ha uomini tosti, su tutti Hernandez, perfino maleducato nella conversazione. Ma il calcio di oggi è fatto così, non si ascolta, non si guarda negli occhi. Si dice e basta, si dice in fretta, senza pensare. Guardando il City contro il Bayern, per esempio, si aveva l’impressione che nessuno si preoccupasse delle parole dell’altro. Si ribatteva a prescindere dal contenuto dei discorsi, in una furia dialettica che trasformava la partita in una nuvola stupenda di ragionamenti lasciati a metà, che solo alcuni giungevano alla meta, il gol, la conclusione rapida del verbo.
Diversa l’Inter di Lisbona (nella foto Ansa Antonio Silva e Edin Dzeko), costretta come sempre a distribuirsi su più piani. Un piano ideativo, uno fisico, un altro tecnico. In campionato la distanza tra i tre piani si allunga e l’Inter parla un linguaggio trattenuto, a volte inespressivo. In Coppa si trasforma, trovando lo spazio che le serve per giocare bene. L’Inter sa difendersi e ripartire. Ha bisogno di stancarsi, non possiede nessuno con il guizzo, a parte lo scintillante Barella. Inzaghi quando parla fa fatica a spiegare, a volte sembra lo specchio della squadra.
Ma è un ragazzo onesto che non conosce la falsità. La sua Inter lo rappresenta. È bella quando nessuno le chiede la bellezza, vincente quando davanti trova avversari che si credono più forti. Come è successo a Lisbona di fronte a un Benfica sciolto ma piuttosto inutile. Se l’Inter fosse una chiacchiera, non sarebbe quella superficiale di una sera. Ma un discorso complesso, che si capisce con il tempo, con la pazienza di chi non vuole a tutti i costi condannare.