due anni dopo
Conti in rosso e giustizia sportiva: tutti i guai dei club che lanciarono la Superlega
A eccezione del Real Madrid, le squadre che tentarono maldestramente di affrancarsi dall'Uefa non se la passano affatto bene. Una situazione che indica una volta come calcio d’élite abbia bisogno di una urgente riorganizzazione e di un ripensamento economico
Due anni fa, dodici club europei, tra i più blasonati, hanno provato a rovesciare la governance del calcio europeo proponendo la fondazione della Super League: 20 squadre, 15 per diritto e solo 5 attraverso la qualificazione. Un sistema chiuso ed elitario che scatenò le reazioni veementi di tifosi e politica. Un accordo svelato dallo scoop del giornalista Tariq Panja sul New York Times. Accordo che all’assemblea di Lega di Serie A era già stato presentato prima delle rivelazioni mediatiche. Scoop che provocò ovviamente l’ira di Aleksander Ceferin, presidente dell’Uefa, scrigno delle coppe europee, contro i club ‘ribelli’ e, in particolare, contro Andrea Agnelli considerato il capo progetto. Progetto organizzato e comunicato nel peggiore dei modi, con strascichi legali fra tribunali spagnoli e Corte di giustizia europea.
Dopo due anni l’idea stropicciata di una Super League resta sul tavolo, con gli ideatori che hanno fatto marcia indietro su accesso ed esclusività della manifestazione e con l’Uefa che al momento è uscita vincitrice morale da questa tenzone. Alla maggior parte dei club fondatori, invece, le cose non sono andate bene.
Il Milan nel 2018 è passato sotto il controllo dell’hedge fund statunitense Elliott Management dopo che la gestione cinese aveva lasciato il club esposto con le banche per 300 milioni di euro. La vittoria in campionato è stata presa quale occasione per fare cassa vendendo il club rossonero a RedBird Capital, private equity statunitense focalizzato sullo sport, per 1,2 miliardi di euro; record per una squadra non appartenente alla Premier League.
L’Inter è di proprietà del Suning Holdings Group il quale nel 2016 ha acquistato il 68,5 per cento delle quote societarie – valutate tra i 600 e i 700 milioni di euro –, società fortemente esposta con Oaktree, debt fund statunitense, che deve decidere se reinvestire nel club nerazzurro o metterlo in vendita; negli ultimi giorni il sito Bloomberg Uk ha rivelato l’interessamento dell’imprenditore italiano Andrea Radrizzani, proprietario del Leeds Utd e cofondatore della società internazionale di diritti sportivi MP & Silva, così come quello di Investcorp, fondo del Bahrein che si occupa di investimenti aziendali e della gestione di immobili e del credito con 50 miliardi di dollari di asset in gestione.
La Juventus e Andrea Agnelli, ex presidente del club bianconero, sono quelli che se la stanno passando peggio, dal meno quindici in campionato per il processo plusvalenze – decretati dalla Corte Federale di Appello della Figc, presieduta da Mario Luigi Torsello –, decisione sulla quale il Collegio di Garanzia del Coni si esprime domani (mercoledì 19 aprile), all’inchiesta Prisma sulla manovra stipendi che potrebbe portare a un’ulteriore penalizzazione. La società piemontese ha fatto e farà ricorso con John Elkann che in queste ore ha dichiarato che la Juve nega ogni illecito attribuitogli. Quasi superfluo immaginare il ghigno di Ceferin rispetto a questa situazione, con l’Uefa che potrebbe prendere ulteriori provvedimenti per la prossima stagione delle coppe europee.
Roman Abramovich è stato costretto a vendere il Chelsea a causa dell’invasione russa dell’Ucraina: un consorzio guidato dal finanziere statunitense Todd Boehly, comproprietario dei LA Dodgers, e sostenuto da Clearlake Capital ha acquistato il club londinese per 2,5 miliardi di sterline, spendendone oltre 600mila per la campagna acquisti e gestendo gli allenatori come palline da flipper. Il Chelsea, attualmente, è undicesimo in Premier League e quasi fuori dalla Champions.
La famiglia Glazer, proprietaria del Manchester United, acquistato per 790 milioni di sterline nel 2005, dopo anni di difficoltà, soprattutto sportiva, pare intenzionata a fare cassa. A novembre aveva messo in vendita il club, registrando gli interessamenti di Jim Radcliffe, miliardario britannico proprietario dell’azienda chimica Ineos, e dello sceicco Jassim bin Hamad bin Khalifa Al Thani, uno degli uomini più ricchi del Qatar. Al momento, però, i proprietari sarebbero più intenzionati a far entrare denaro fresco che a vendere il Manchester United.
Nelle identiche condizioni il Liverpool. A novembre il Fenway Sports Group, proprietario dei Reds e dei Boston Red Sox, ha pensato di vendere la squadra di calcio senza però ricevere offerte serie. Vendita ritirata ma porte aperte a soci di minoranza.
Il Manchester City è quello che sportivamente si trova nelle condizioni migliori, con grandi capacità economiche da una parte e un allenatore, Guardiola, capace di vedere sempre oltre le classificazioni del gioco, stabilite da altri per suo conto. A febbraio, però, la Premier League ha contestato al club di proprietà emiratina, attraverso il City Football Group, reiterate violazioni delle regole finanziarie, per le quali rischia dalla decurtazione dei punti all’esclusione dal campionato. Il board del club nega ogni accusa.
Nell’estate del 2021 il presidente del Barcellona, Joan Laporta, di fronte a perdite di 500 milioni di euro aveva dichiarato il club catalano “clinicamente morto”, tanto da cedere Lionel Messi al Psg. Il Barça è finito sotto il controllo economico della Liga e ha venduto i suoi futuri diritti televisivi a Sixth Street, private equity statunitense, per oltre 600 milioni di euro. Il peggio, però, doveva ancora arrivare. Tra il 2001 e il 2018 il Barcellona, secondo gli inquirenti, avrebbe pagato 7,3 milioni di euro alle società di José Maria Enriquez Negreira, ex vice presidente degli arbitri spagnoli dal 1994 al 2018, e del figlio Javier, tramite una terza di proprietà di un ex dirigente del Barça, deceduto, Josep Contreras, per corrompere i fischietti spagnoli. Il fisco non trova 550.000 euro che José Maria Enriquez Negreira ha prelevato in contanti dai suoi conti, ma questo nega di avere pagato gli arbitri con i soldi presi dal Barcellona, mentre Laporta ha dichiarato di avere in mano i documenti corrispondenti ai servizi di informazione su arbitri e giovani calciatori, con relative fatture. Il Barcellona, més que un club ricordiamolo, si sta difendendo con le unghie e con i denti, affermando che Javier Tebas, presidente della Liga, avrebbe fornito alla procura prove false. Quel Tebas grande moralizzatore del calcio europeo che, se le accuse fossero fondate, avrebbe quanto meno mancato di vigilare sulla regolarità del proprio campionato, insieme ad alcuni suoi ex colleghi.
Ne viene fuori un quadro mesto, con vari filoni di riflessione. Se, infatti, da una parte la Super League è stata una maldestra – eufemismo – prova di forza dei club più blasonati, indebitati e con le mani sporche a raschiare il fondo del barile, dall’altra è indubbio che il calcio d’élite ha bisogno di una riorganizzazione e un ripensamento economici, in attesa della riforma della Champions League, ancora poca chiara. Perché quel triste solitario y final della Super League non diventi il mantra di tutto il calcio europeo.