Olive #30
Maxime Lopez, qualcuno di cui fidarsi
Il centrocampista francese del Sassuolo continua a ronzare in mezzo al campo, a rompere le uova nel paniere altrui e trasformarlo in farina per il proprio pane. Così l'ex del Marsiglia si è preso la ribalta della Serie A
Fa un po’ sorridere che un uomo di un metro e sessantasette centimetri per meno di sessanta chili si chiami Maxime. Dovrebbero essere più attenti i genitori nella scelta dei nomi che si danno ai figli, considerare un po’ di più il vecchio detto che la mela non cade mai lontano dall’albero. Maxime Lopez il nome non l’ha scelto, il ruolo neppure. Voleva giocare in attacco, come il fratello, con il numero 10, quello che se ne frega di peso e altezza, quello che è tutta classe. Il fratello ne aveva di più, o forse no. Forse aveva solo il dribbling, quello che ti abbaglia, che ti fa superare l’uomo. Dicono che serva, che sia necessario. Maxime Lopez non l’aveva raffinato come Julien, ne ha fatto a meno.
Si è ritrovato metri dietro alla posizione nella quale giocava il fratello, prima si è abituato, poi ha apprezzato, infine ha capito che era quella, e non un’altra, la sua posizione in campo. Gli è andata bene.
Ce ne sono pochi in Serie A di giocatori come Maxime Lopez. E non per fisico. Per testa e piedi. Perché se c’è una cosa che sa fare il venticinquenne centrocampista francese è prendere palla, osservare il campo, capire dove è meglio passarla, lanciarla, calciarla. E non c’è nemmeno bisogno che gliela passino, spesso fa da sé, pressa, infastidisce, recupera, nel modo che hanno le mosche di rovinarti i pomeriggi estivi distesi nei prati sotto l’ombra di un albero.
Se il Sassuolo funziona, se gioca, combatte, vince, è successo anche contro la Juventus al Mapei Stadium, è anche perché c’è lui a ronzare in mezzo al campo, a rompere le uova nel paniere altrui e trasformarlo in farina per il proprio pane. E non era facile, nemmeno scontato. Perché in neroverde i centrocampisti di qualità non mancano, e nemmeno quelli di rottura, se in panchina ci finiscono giocatori come Pedro Obiang e Kristian Thorstvedt.
Maxime Lopez è quello che potrebbe essere definito, per somma sintesi, un rompiballe. Quanto meno in riferimento agli avversari. Per i compagni di squadra è l’opposto di questo. È qualcuno di cui fidarsi, per cui giocare. Perché nove (o quasi) palle su dieci che tocca le trasforma in passaggi precisi e utili, la metà di questi sono inizi di azioni che potrebbero essere pericolose, l’altra in rogne evitate. E almeno due a partita sono passaggi decisivi per azioni che portano al gol. In giro, almeno in Italia, non c’è tanta gente come lui.
Alessio Dionisi, l’allenatore dei neroverdi, lo sa bene. In campo lo mette sempre, non c’è mai scelta tecnica che tenga (se è rimasto fuori è stato per problemi fisici o per squalifica). L’aveva capito anche André Villas-Boas, l’allenatore dell’Olympique Marsiglia che prima non s’era opposto alla sua cessione al Sassuolo, salvo poi pentirsene: “Devo dire che il lavoro di Maxime era ben più importante di quello che avevo stimato. Ora tocca sistemare, cambiare, limare i meccanismi di squadra”, disse dopo pochi mesi l’addio del centrocampista alla sua amatissima Marsiglia.
Eppure forse non poteva fare altrimenti Maxime Lopez. A volte serve recidere le radici per trovare la propria dimensione. E Marsiglia, l’Olympique, difficilmente sarebbe potuta essere la sua dimensione. Perché a volte scappare dal proprio nido è l’unica via per trovare una propria dimensione, soprattutto quando per faciloneria la minuteria fisica viene utilizzata come metro di paragone per avvicinarti a un altro giocatore che ha in comune con te solo le ridotte dimensioni corporee. Maxime Lopez l’ha subita fin da quando s’era iniziato a capire che potesse diventare un calciatore non banale. Dicevano: il nuovo Samir Nasri. Non era così. Non è così. C’entra niente, è mai c’entrato niente, Maxime Lopez con il fantasista che illuse la Francia. Nemmeno l’altezza: è dieci centimetri più basso.
Nasri ha sempre cercato di allontanare da lui quel ragazzino dai pochi centimetri e dai piedi buoni. Disse: “Io so dribblare e lui no”. Aveva ragione. Quello che non disse è che Lopez sapeva fare e disfare il gioco, sbagliare poco senza nemmeno il dovere di apparire. Ecco questo Nasri non c’è mai riuscito.
Olive è la rubrica di Giovanni Battistuzzi sui (non per forza) protagonisti della Serie A. Nella prima puntata si è parlato di Khvicha Kvaratskhelia (Napoli), nella seconda di Emil Audero (Sampdoria), nella terza di Boulaye Dia (Salernitana), nella quarta di Tommaso Baldanzi (Empoli), nella quinta di Marko Arnautovic (Bologna), nella sesta vi ha invece intrattenuto Gabriele Spangaro con Beto (Udinese), nella settima di Christian Gytkjær (Monza), nell'ottava Armand Laurienté (Sassuolo), nella nona Sergej Milinkovic-Savic (Lazio), nella decima Sandro Tonali (Milan), nell'undicesima Cyriel Dessers (Cremonese), nella dodicesima Tammy Abraham (Roma), nella tredicesima Stefano Sensi (Monza), nella quattordicesima Federico Baschirotto (Lecce), nella quindicesima Moise Kean (Juventus), nella diciasettesima Rasmus Hojlund (Atalanta); nella diciottesima M'Bala Nzola (Siena); nella diciannovesima Federico Dimarco (Inter); nella ventesima Cyril Ngonge (Hellas Verona); nella ventunesima Riccardo Saponara (Fiorentina); nella ventiduesima Perr Schuurs (Torino); nella ventitreesima Ola Solbakken (Roma); nella ventiquattresima Riccardo Orsolini (Bologna); nella venticinquesima Henrikh Mkhitaryan (Inter); nella ventiseiesima Rolando Mandragora (Fiorentina); nella ventisettesima Zlatan Ibrahimovic (Milan); nella ventottesima Nemanja Radonjić (Torino); nella ventinovesima Mattia Zaccagni (Lazio).