Il Foglio sportivo
Cent'anni di sua maestà Wembley
I 28 aprile 1923, cent’anni fa, con il primo evento, la storica finale di Coppa d’Inghilterra tra Bolton Wanderers e West Ham United, veniva inaugurato il grande stadio londinese. Una storia che ha rischiato di finire subito e invece proseguì grazie ai levrieri
Una volta, lì, era davvero tutta campagna. La campagna inglese, verde intensa di pioggia e di umido, disordinata e intatta. Almeno fino al 1792, quando Richard Page, grande proprietario terriero, decise di trasformare i suoi possedimenti a nordovest di Londra, contea del Middlesex, in una serie di giardini e boschi curati, in modo che la dimora di famiglia non fosse più solo un bell’edificio al centro di un grazioso nulla, ma il cuore di un’area esteticamente gradevole. Ci pensò uno specialista autodidatta, Humphry Repton e, dopo un po’ l’intero, enorme complesso, ‘parco’ secondo l’accezione moderna, si chiamò Wembley Park: derivazione dal nome originario, Wemba Lea, ‘radura della famiglia Wemba’, diventato poi Wembly che è tra l’altro l’unico modo corretto di pronunciare tuttora stadio e quartiere: la seconda ‘e’ di Wembley la mettono solo gli stranieri. Cresciuto in popolarità grazie all’acquisto del complesso nel 1889 da parte di Edward Watkin, presidente della ferrovia Metropolitan, che l’aveva trasformata in un parco di divertimenti e svago costruendoci una stazione apposita, appunto Wembley Park, e lanciando una massiccia campagna pubblicitaria per attirare, con successo, le famiglie che volevano sfuggire, anche solo per poche ore, al caos di Londra, il nome di Wembley entrò nella storia del calcio qualche tempo dopo, grazie al suo stadio.
Esattamente il 28 aprile 1923, cent’anni fa, con il primo evento, cioè la storica finale di Coppa d’Inghilterra tra Bolton Wanderers e West Ham United: furono apparentemente più di 300.000, oltre il doppio della capienza ufficiale di 125.000, le persone che entrarono in ogni modo – persino quelli illeciti – esondando fino a bordo campo, liberato e poi a stento tenuto sgombro da alcuni poliziotti a cavallo tra cui il celebre George Scorey, passato alla storia perché il suo destriero, Billie, grigio, nelle immagini dell’epoca, sembrò bianco e spiccò più degli altri, neri. Fu, pur nel caos e nella tragedia mancata, la certificazione della grandezza di Wembley, che però era nato in circostanze incidentali e sopravvisse, in seguito, per motivi altrettanto casuali.
La nascita era stata causata dall’ambizione britannica di ribadire, dopo la Prima Guerra Mondiale e le prime difficoltà economiche e politiche, la forza e la ricchezza dell’Impero: visto il successo delle Expo, le fiere internazionali di oggetti, stili e innovazioni, si era pensato di organizzarne una… interna, per ribadire la potenza imperiale, ricucire rapporti con possedimenti che tendevano a sfuggire alla presa e dare lavoro ad alcune migliaia di reduci della Prima Guerra Mondiale che avevano faticato a reinserirsi. Per il complesso era stata scelta proprio Wembley Park, e oltre a padiglioni e palazzi, molti dei quali in stile volutamente sfarzoso, si era pensato di costruire uno stadio. Gli organizzatori avevano visto quanto fosse diventato popolare quello di Crystal Palace, edificato nei pressi dei luoghi dell’Expo del 1851, con enorme afflusso di persone alle finali di Coppa d’Inghilterra dal 1895 al 1914. Un po’ meno successo aveva avuto Stamford Bridge, costruito appositamente per ospitare proprio le finali, e questo convinse gli organizzatori a provare l’impresa. Wembley – ufficialmente Empire Stadium proprio per l’ambito in cui era stato ideato – venne costruito in pochissimo tempo, 300 giornate lavorative, con un utilizzo massiccio di cemento armato, decorato esternamente in modo da far apparire in realtà uno strato di mattoni, e dipinto di bianco, per ottenere un effetto ancora maggiore, ma fu già all’epoca una costruzione anomala: a pianta ovale e non rettangolare come la stragrande maggioranza degli stadi inglesi, anche perché progettato da uno studio che non aveva mai realizzato un impianto del genere in vita sua.
Ecco perché fin dall’inizio la nomea e la reputazione di Wembley sono state una sorta di mistificazione: luogo di partite mitiche e, per questo, amato da tantissime tifoserie, ma scomodo, con visuale parziale data dalla distanza degli spalti dal campo, aumentata per la decisione di inserire una pista in terra battuta. Mossa commerciale: Wembley era uno stadio privato, che non poteva certo mantenersi con una finale di coppa e una manciata di partite della Nazionale all’anno (con regolarità solo dopo il 1945), e per questo i proprietari decisero di ospitare prima le corse dei levrieri, popolarissime, poi quelle di moto da speedway, rugby, concerti (ricordate il Live Aid del 1985?), concorsi ippici. I levrieri correvano addirittura la sera stessa della finale di Coppa, che terminava intorno alle 17, e non era raro che allo stadio rimanessero tifosi delle due squadre, intenzionati magari a festeggiare la vittoria, o rifarsi della sconfitta, con qualche puntata. Di questi dettagli trapelava poco, all’estero, dove Wembley per alcuni decenni fu, assieme al Maracanà, lo stadio più famoso e leggendario: una sorta di palcoscenico che ogni calciatore degno di questo nome doveva calcare, status incrementato dai Mondiali del 1966, trasmessi in un numero di paesi nettamente superiore rispetto al passato, così come la finale di Coppa dei Campioni del 1968, quella vinta dal Manchester United di George Best.
Del resto, giocare a Wembley voleva dire essere già di per sé una élite: solo finali, a livello di club, per cui il classico coro ‘we’re going to Wem-ber-ley’ era cantato solo da chi si andava a giocare un trofeo, e solo partite importanti, per la Nazionale. Ecco perché gli anni Novanta rappresentarono poi un cambio di rotta: nel 1991 si decise di ospitare anche le semifinali di Coppa d’Inghilterra e allora Wembley perse parte del suo fascino esclusivo, perché ci andava anche chi, poi sconfitto in semifinale, sarebbe stato dimenticato pochi giorni dopo. Anche nel resto del mondo il fascino cominciò ad attenuarsi, per un fenomeno naturale: l’ampliarsi delle conoscenze e le prime telecronache avevano sviluppato più il tifo per singole squadre che non l’amore pulito e avvolgente per il calcio inglese in sé, e un appassionato di Milano o Berlino preferiva andare ad Highbury a vedere l’Arsenal o Old Trafford per lo United che fare il pellegrinaggio a Wembley. Stadio maestoso per le due famose torri a cupola, concessione alla grandeur imperiale e omaggio ad alcuni edifici del passato, ma stadio progressivamente fuori moda anche dopo la ristrutturazione del 1990, con inserimento di seggiolini al posto delle gradinate e riduzione della capienza a 92.000.
Lo spettacolo e le condizioni prima della partita, all’intervallo e alla fine potevano essere indecorose: stante l’insufficiente capienza delle toilette, era per esempio facile vedere decine di persone che orinavano sui muri della prima recinzione esterna. Una storia travagliata, resa più edificante dal velo di mito e leggenda, che finì con l’ultima, triste partita del 7 ottobre 2000, un Inghilterra-Germania 0-1 sotto la pioggia, seguita dalle dimissioni dell’allenatore Kevin Keegan comunicate in una toilette degli spogliatoi. Una storia che peraltro avrebbe potuto finire quasi subito: chiusa nel 1925 l’Expo senza lo sperato effetto rigeneratore sul morale imperiale, con il discorso del Re Giorgio VI (padre di Elisabetta) reso famoso dall’omonimo film, gli edifici e lo stadio dovevano in realtà sparire, ma furono salvati in circostanze curiose e anche tragiche. Il liquidatore Jimmy White, a un certo punto, pressato dai creditori, si suicidò, lasciando al socio Arthur Elvin, il cui busto ha troneggiato fino alla fine sopra a uno dei portoni di ingresso, il compito di distruggere tutto e vendere il materiale per altre costruzioni. Elvin, però, in extremis, nell’agosto del 1927, trovò il finanziamento per acquistare tutto lo stadio e lo rivendette nemmeno 24 ore dopo, con un bel profitto, a un consorzio che, introducendo proprio le corse dei levrieri, poté garantirne la sopravvivenza. I casi della vita.