Prospettiva Kvaratskhelia. Quando il nuovo ci spiazza solo perché non pensavamo ci fosse davvero
L'arrivo del georgiano a Napoli e in Italia è stata un'epifania. Una novità come il secondo atto degli Azzurri di Luciano Spalletti che festiaggiano ora un meritatissimo scudetto
Fu un pomeriggio di metà agosto che qualcosa di strano, non comune, al quale senz’altro non eravamo pronti, perché si è mai pronti davvero alle novità, apparve in uno stadio con più vuoti che pieni. Ad agosto non si dovrebbe giocare a pallone, soprattutto a ferragosto. O non almeno in Italia, che l’italiano, anche se calciofilo, c’ha ancora voglia di mare, spiaggia, bikini e coccobbello. Eppure quel giorno, a ferragosto, a Verona, scoprimmo che sulle fasce del Napoli gravitava qualcosa che sino all’anno prima non c’era e che i più non sapevano nemmeno ci dovesse essere quel giorno. Khvicha Kvaratskhelia era sino allora solo un nome e cognome esotico, che veniva da lontano, da quei posti un tempo rossoneri, quelli di Kakhaber Kaladze, per semplicità Kakha Kaladze. E c’era venuto il sospetto, quasi la certezza che fossero posti pieni di persone forti e rocciose, gente dai modi calcistici rudi. Le novità impongono il ripensamento dei pregiudizi e vedere giocare Khvicha Kvaratskhelia era qualcosa che ribaltava non solo ciò che potevamo pensare sul calcio georgiano, ma anche sulle possibili ambizioni del Napoli in questa stagione.
E sì che l’epifania fu parecchio stramba, del tutto distante dalla realtà che da lì in avanti avrebbe accompagnato la stagione del Napoli per mesi e mesi, superando la pausa del Mondiale, fino a uno scudetto che a metà agosto, in quello stadio con più vuoti che pieni, sembrava quantomeno poco probabile, se non quasi impossibile. Un colpo di testa buono per rimettere in pari una partita iniziata male: 1-1. Un colpo di testa che era evidente, sgraziato com’era, non fosse il punto forte del repertorio di Khvicha Kvaratskhelia. Poi arrivò il resto. E il resto era tanto e parecchio bello.
Khvicha Kvaratskhelia era allora un nome complesso che filava poco e male in telecronaca, che si inceppava in bocca molto più di quanto si inceppava in campo. Perché in campo si inceppava poco o niente.
Khvicha Kvaratskhelia è diventato in poco tempo una realtà che in pochi, nessuno?, aveva previsto. Una finta ripetuta, un piede capace di tirare o crossare con la stessa raffinata forza e delicatezza. Non la figurina di questo Napoli, una delle figurine di questo Napoli capace di sfuggire da un destino che tanti, tutti?, pensavano segnato come quello di certi bei sogni che svaniscono una volta aperti gli occhi.
Perché Khvicha Kvaratskhelia non è stato il solo tra tanti, non ha mai recitato un soliloquio alla diegoarmandomaradona, è stato parte, veloce, scattante, dribblante, eccitante, di una squadra capace essere allo stesso tempo gruppo e individualità, insieme e singolo come era già successo l’anno scorso anche al Milan scudettato di Stefano Pioli, ma molto meglio, in modo parecchio più abbondante e debordante.
Lo scudetto del Napoli è stata la perfetta continuazione di quanto accaduto un anno fa, la vittoria della Serie A da parte del Milan. Perché la seconda versione del Napoli di Luciano Spalletti è stata un’altra dimostrazione di come possa ancora esistere nel calcio la possibilità di fare bene senza dover per forza cedere alla logica che va per la maggiore in questo momento: le vittorie sono solo figlie delle grandi spese. Non è sempre così ( e per fortuna), vale ancora quel vecchio arnese chiamato pazienza e quell’arnese solo un filo più recente chiamato fiuto, che poi altro non è che la somma dell’osservare e del saper valutare se qualcuno è utile a un progetto di gioco più complesso del singolo individuo. Il Napoli è riuscito a fare questa somma. E Khvicha Kvaratskhelia è il risultato più evidente di tutto questo.
Il georgiano è un ottimo calciatore, non è però un fuoriclasse assoluto. È un giocatore che fa la differenza in campo non solo per le proprie capacità tecniche o fisiche, ma anche per come le utilizza all’interno della squadra, per la capacità di fare spesso la scelta giusta. E questo lo porta in completa antitesi e proprio per questo in assoluta continuità con l’altro grande protagonista del successo del Milan di un anno fa, Rafael Leao.
Leao e Kvaratskhelia sono diversissimi e molto simili allo stesso tempo. Sono spiriti liberi, giocatori umorali, che hanno bisogno di essere coccolati, di sentirsi importanti. Sono entrambi uomini di fascia, che fanno della velocità e del dribbling i loro punti di forza. Ma se il primo segue l’estro momentaneo, la possibilità di superare chiunque grazie a un’accelerazione e a una palla nascosta all’avversario, il secondo pure, ma ha sempre bisogno di un compagno affianco, basta certamente a se stesso, ma sente sempre la necessità dell’alternativa (che spesso non viene presa davvero in considerazione, ma tant’è).
Ed è questa la novità a cui non eravamo abituati, che si è palesata in modo straripante all’interno di una squadra che fa della bellezza, una luccicante bellezza, corale il suo tratto distintivo: la possibilità di dipendere dal gruppo e dal singolo allo stesso tempo, ma sapendo benissimo che il singolo e il gruppo non sono in realtà in antitesi, anzi. È un tutt’uno, qualcosa di inscindibile, perché tutto rientra in una narrazione con più punti di vista all’interno del racconto, ma che mai entrano in conflitto, mai si pestano i piedi.
Khvicha Kvaratskhelia è stata un’epifania. Forse la migliore in campionato che non si pensava potesse finire così, ma che così è giustamente finito. Con il Napoli di Luciano Spalletti davanti e dietro, con un’enorme distanza di sicurezza, tutti gli altri.