il foglio del weekend

Dalla A di "Anema e Core" alla Z di Zona azzurra: dizionario dello scudetto del Napoli

Francesco Palmieri

L'A16, come l'autostrada che i tifosi consigliavano a De Laurentiis di prendere per andarsene a Bari. Ma anche la O di Osimhen, eroe del giorno (e della stagione). Viaggio alfabetico nel vulcano della città

A
Dalla A di A16, l’autostrada che porta in Puglia, alla A di Anema e Core. A16 fu l’hashtag dell’estate scorsa, invito avvelenato rivolto dai tifosi del Napoli al presidente Aurelio De Laurentiis perché se ne andasse al Bari, altro club di proprietà Filmauro, dopo avere congedato i pezzi pregiati degli azzurri: Insigne, Mertens, Koulibaly. Sollevazione ribaltata in un’estasi calcistica Anema e Core al termine di un campionato stellare. Tutti acquattati per settimane sotto la A di attesa per la certezza matematica del titolo, che prolungandosi ha dilatato la festa. La A di Aurelio invece, malgrado il suo refrain reiterato negli anni “vi ho presi dalla C e vi ho portati sin qui”, non si trasforma mai nell’A di amore tra il presidente e la città. Al massimo un “Anvedi questi” da parte di lui, chiamato a Napoli “il romano”, e un “Aje fatto ‘e sorde” (ci hai guadagnato) dei tifosi a lui.


B
“Napoli non deve cambiare” era il chiodo fisso del maniaco in costume interpretato da Lello Arena nel vecchio film No grazie, il caffè mi rende nervoso. Invece la città dagli anni Ottanta è cambiata, anche se in questi giorni sembra di rivederla come allora. Non solo per l’azzurro che la ricolora, ma per le centinaia di bancarelle spuntate ovunque, come quelle dei contrabbandieri da cui a quel tempo fu popolata notte e dì. Solo che adesso germogliano dai banchetti mazzi di bandiere, ciuffi di sciarpe celebrative, sagome di polistirolo dei calciatori, trombe per soffiare di chiasso la gioia. Dai contrabbandieri alle bandiere: quelle con Diego, con lo scudetto numero 3, col totemico ciuccio del club e qualche ovvio vessillo borbonico o degli Stati confederati americani.


C
Castel dell’Ovo azzurrato dalle luci con lo scudetto proiettato sulle mura, mentre s’attardano di sera coppiette innamorate, simposi improvvisati di amici e stranieri euforizzati da una festa altrui a cui si sono piacevolmente invitati. Malgrado l’inclemenza di aprile e di un maggio cominciato a retromarcia meteorologica, il tappeto di mare che culla gli ospiti dello scudetto accende romantici smarrimenti e smorza le diffidenze sulle notti napoletane, alimentate dai luoghi comuni e da meste verità.


D
Come Daniele (Pino) e D’Angelo (Nino), che hanno regalato ai tifosi dello Stadio Maradona già San Paolo canzoni emblematiche intonate e stonate in coro da 50 mila bocche, ma nulla hanno potuto a fronte di ’O surdato ‘nnammurato. Fu scritta per la guerra ‘15-’18 dal viveur Aniello Califano (dev’essere un destino del cognome) e musicata dal maestro Enrico Cannio, i quali mai avrebbero immaginato che la melodia dalle trincee sarebbe finita sugli spalti – che sono in fondo una derivazione più innocua delle trincee. Anche perché il Napoli all’epoca non era nato e il calcio, che si chiamava football, era praticato da sparuti anglofili un po’ stravaganti. Ma alla D c’è anche l’illustre collega di Pino e Nino, Lucio Dalla, che finalmente varcò l’oceano con una canzone quando si decise a scriverla in napoletano dedicandola a Caruso.


E
E’ stata la mano di Dio: molti sono convinti che Diego abbia intercesso da lassù. Per l’Argentina ai Mondiali e per il Napoli adesso. Ci crediamo fino a prova contraria.


F
Ferlaino Corrado. Per più di tre decenni deus ex machina della Società Calcio Napoli tra alti e bassi, tra la mediocrità della classifica, l’exploit di due scudetti e una coppa Uefa grazie all’acquisto di Maradona e poi giù giù fino alla polvere. F anche per i fiori che l’ingegner Ferlaino, novantaduenne, deporrà il mese prossimo sulla tomba del Pibe a Buenos Aires, come ha annunciato spiegando perché non ci sarà alla festa organizzata dal Comune il 4 giugno. F come fedeltà “a un amico”, così lo ricorda l’ingegnere, che con lui vinse e pianse e litigò. Facendo bellezza di tutto questo al termine della notte, con un volo di quattordici ore per portare il “grazie” di Napoli dentro un mazzo di rose.


G
Giovani: appartiene a loro lo scudetto numero 3. A quelli che nell’anno del secondo, il ‘90, non erano nati; che hanno sentito raccontare le glorie trascorse dai padri e dai nonni; che non avevano potuto dire ancora a nessuno il famoso “cosa vi siete persi” e adesso sì, possono girare la frase a chi c’era negli altri due scudetti e non c’è più. Spetta ai giovani questa vittoria che poi racconteranno a chi verrà, perché il pallone è una sfera e la vita è una ruota. Sperando che fra il terzo e il quarto titolo passino molti meno anni dei trentatré durante i quali era mancato.


H
Hotel Britannique, dove Aurelio De Laurentiis e gli ultras hanno siglato con un aperitivo e un tweet la riappacificazione dopo lo sciopero del tifo e i disordini in curva del 2 aprile, quando il Milan inflisse quattro gol a una squadra imbambolata anche per la colpa surreale di chi, con lo scudetto in tasca, s’impegna a litigare. Si saprà nelle prossime settimane se quella del Britannique è stata vera pace o effimera tregua.


I
I come incantevole città, che ha registrato tra Pasqua e i ponti del 25 aprile e primo maggio un’esplosione di presenze. Nel centro storico si faticava a camminare mentre si moltiplicano le friggitorie e si riducono le librerie. Eppure chi si mette in fila da Sorbillo o assaggia il “cuoppo” va pure a visitare il Museo archeologico nazionale, Capodimonte e Pompei, anche se i trasporti funzionano male come domenica 30 aprile, che hanno lasciato tutti a piedi costringendo a spossanti maratone cittadini, tifosi e turisti. Ma chi ricorda l’epoca dei gitanti che scappavano dai treni agli aliscafi, saltando la città dipinta come una Baghdad in guerra, sopporterà le inefficienze, la puzza di fritto e una Napoli un po’ di plastica che recita se stessa. Perché c’è sempre modo di toglierle la maschera.


J
L’iniziale meno amata del dizionario napoletano.


K
Lettera insolitamente affollata, prima per il doppio K del giocatore bandiera Kalidou Koulibaly, che alla partenza per il Chelsea tagliò il cuore dei tifosi. Poi per l’arrivo dell’altro doppio K, il sottovalutatissimo georgiano Khvicha Kvaratskhelia (che poi, esagerando, qualcuno ha soprannominato Kvaradona).  Senza dimenticare la K di Kim Min-jae, dalla Corea con furore iniziale e applausi finali.


L
Lauro Achille ‘o comandante, il presidente dell’èra pre-Ferlaino, monarca e monarchico. Artefice di populismi politici e calcistici, per 105 milioni di lire comprò Hasse Jeppson, formidabile e deludente investimento per le aspettative dei tifosi degli anni Cinquanta a conferma di una regola crudele: sognare fuori dal letto costa un sacco di soldi. Per oscurare la memoria del vero Achille Lauro, il fato ha promosso alla celebrità un omonimo cantante che Wikipedia propone come prima opzione.
  

M
Maradona non si limita a essere presente. Se un ragazzo vi chiede di spiegargli l’immanenza rispondete: Maradona a Napoli. Dopo la morte anche di più. Il murale ai Quartieri Spagnoli con pertinente santuario laico è l’angolo più visitato della città (visitato è eufemismo perché il richiamo dello scudetto ha catalizzato una calca come poche si ricordano). Tra le epifanie di Maradona è assai più comodo, perché non ci va nessuno, un murale dei vecchi scudetti sui resti di Palazzo Spinelli a salita Tarsia, ridipinto e aggiornato col terzo tricolore come per un passaggio di consegne tra generazioni. Il volto del Pibe guarda verso la chiesa intitolata a sant’Antonio, dall’aspetto dimesso ma che data al ‘500. All’ingresso hanno attaccato uno striscione: “’O ssapimmo ca pure ‘all’atu munno state festejanno Napoli campione d’Italia. In memoria di chi non c’è più”. Non ci passano turisti perciò qui Napoli si sfila la maschera (vedi alla lettera I) svelandosi malinconica come Eduardo e Troisi, o come Salvator Rosa, Giannone e Vico se preferite i passaggi alti.


N
Necco Luigi, l’innamorato dell’archeologia che vestì i panni del telecronista sportivo e che uno striscione issato nella popolare Pignasecca ricorda in questi giorni senza averlo mai dimenticato. Sorridente lui, sorridenti noi. N come ’Na sera ‘e maggio, il brano classico di Pisano-Cioffi che un incrocio di effemeridi calcistiche ha associato allo scudetto dalla prima volta (“Tu me diciste sì ‘na sera ‘e maggio”).


O
Osimhen. L’eroe del giorno, il cannoniere: dall’infanzia sventurata di Lagos al podio dei campioni, è diventato il beniamino della città frequentandola solo sul campo. La mascherina che indossa è un gadget di successo tra Zorro nero e la Marvel e il suo pupazzo di creta pullula a San Gregorio Armeno. A Pasqua ispirò una golosa colomba al cioccolato. Lui fa gola al Bayern Monaco. Dunque non affezioniamoci troppo.
  

P
P come “pappone”: insulto trasversale rivolto negli anni scorsi a De Laurentiis da curvaioli lazzari e da esponenti di professioni liberali (notai, avvocati, medici) in libera uscita. Guardando a bilanci societari e risultati, chi lo pronunciava si potrebbe vergognare. Per addolcire la lettera, P sia anche tributo a Bruno Pesaola ‘o petisso, calciatore, allenatore, giocatore di carte e fumatore assolutista, argentino napoletano che segnò la storia del club rallegrandolo anche negli insuccessi per signorile intelligenza. E P è come Paradiso, lo storico centro sportivo di Soccavo dove si allenava il Napoli di Maradona nonché la porzione di cielo da cui Pesaola sta commentando lo scudetto, assieme a Gaetano Musella, Giuliano Giuliani, Peppe Massa e tutti quelli spinti ad andarsene dal fato con una fretta che non ci ha spiegato. 


Q
Quagliarella Fabio, con tante scuse che fuori tempo massimo servono a poco a chi ormai chiude la carriera a quarant’anni nella Sampdoria. Esecrato dai tifosi azzurri dopo un frettoloso addio per passare alla Juventus, come un Higuaín qualunque, si scoprì poi che ne era stato costretto perché vittima di uno stalker condannato in via definitiva. I tifosi gli chiesero perdono ma intanto il tempo giusto era passato e nessun tribunale può riportare indietro i giorni quando il danno è fatto.


R
Riscatto: vocabolo associato al primo scudetto ma improprio per il terzo. E’ una vincita, non una rivincita. Senza retorica sotto la R.
 

S
Spalletti Luciano, allenatore che non si richiama a una scuola né pretende di crearla ma è produttore di bel gioco che vince lo scudetto. S come Sarri Maurizio, anche lui produttore di bel gioco ma senza scudetto. S come “Sin prisa, sin pausa”, motto napoletano di Rafa Benítez, cattedratico della panchina ma che pure mancò il tricolore. Ci furono, all’epoca, sarristi e rafaeliti ma non ci sono spallettisti. L’altro giorno Matteo Renzi ha confidato ciò che gli disse il tecnico di Certaldo: “Vedi, te tu eri un rottamatore, ma io sono stato l’aggiustatore, quello che dai rottami ha ricostruito le squadre mettendole in piedi e subito in grado di correre con la velocità dell’alta classifica”.


T
T come tifo, malattia che nella variante napoletana coinvolge durante i successi anche santi, diavoli, immigrati, turisti occasionali e spregiatori del calcio, categorie generalmente immuni o distrattissime quando le cose vanno male.


U
Un giorno all’improvviso: dai Righeira alle curve del Napoli al treno della ferrovia Cumana dipinto d’azzurro con i versi della canzone dalla Eav, l’azienda per il trasporto pubblico. Cantato da varie tifoserie, non è più in voga come un tempo. Inevitabilmente (vedi alla D).


V
’O Vesuvio. Ormai sono gli ultras napoletani che sugli spalti, precedendo i rivali, intonano il coro altrui: “Vesuvio erutta, tutta Napoli è distrutta”. Sapiente esorcismo di una città specializzata nello studio della scaramanzia e dei malocchi, per propiziare l’inattività del vulcano incitandolo a svegliarsi. Il cratere del Vesuvio è sottoposto a vigilanza da quando si è sparsa la voce che un gruppo di tifosi vuol riempirlo di petardi per simulare l’eruzione. “Qui si esagera”, direbbe Totò.


Z
Zona azzurra: decretata a singhiozzo ipotizzando la certezza aritmetica del tricolore per prevenire incidenti stradali e ingorghi irrimediabili nelle strade della festa. Ha suscitato disagi e malumori. Però, ne valeva la pena.

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