Un altro Giro
Il Giro è "una gran festa dell'Unità a pedali"
"Cominciai a correre di nascosto. Quando non potei più nascondermi, avevo già cominciato a vincere". Parla l'ex corridore Franco Canciani
Lui c’era, quel 30 giugno 1946. “Giro d’Italia, dodicesima tappa, Rovigo-Trieste, 139 chilometri. Doppio giorno di festa: la festa per la domenica e la festa per il Giro. Sveglia, colazione, motorino. Un Sachs 49 di cilindrata. In due. Davanti mio padre, e dietro, abbarbicato e abbracciato, io. Da San Canzian a Begliano. Cinque chilometri di strade bianche di campagna. Poi l’attesa. Il gruppo arrivò e si arrestò: le stanghe del treno – il passaggio a livello – erano abbassate. Piedi a terra, i corridori furono presi a sassi e proiettili. Erano i titini, i partigiani jugoslavi. Ci riparammo in un campo di mais e in un boschetto. Tutti i libri dicono che quell’attentato fu fatto a Pieris, invece era Begliano. Ma tra fotografie e filmini, adesso posso dimostrare il luogo esatto”.
La corsa rosa è un giro di ricordi e sogni, avventure e disavventure, imprese e crisi, storie e passioni. Un altro Giro è la rubrica di Marco Pastonesi che ci accompagnerà strada facendo sulle strade del Giro d'Italia 2023.
Lui c’era, prima sulla strada, poi nel campo di mais: “Durò, in tutto, un’ora. Sulla strada erano stati scaricati barili di catrame e stesi reticolati. Poi i lanci dei sassi e i colpi di pistole e fucili. Quando tornò la calma, la tappa venne neutralizzata, 17 corridori salirono su un camion militare e andarono al traguardo, una quarantina di chilometri. A vincere Giordano Cottur, triestino, poi Toni Bevilacqua, veneziano di Santa Maria di Sala, c’era anche Guido De Santi, triestino, che sarebbe diventato il mio direttore sportivo, c’era anche Luigi Malabrocca, piemontese di Tortona, ma che siccome era l’ultimo in classifica apparteneva a tutti. Gli altri corridori, Bartali e Coppi compresi, sparirono, direttamente negli alberghi, a Udine. Intanto mio padre e io, sul Sachs 49 di cilindarata, eravamo già tornati a casa. Sani e salvi”.
Franco Canciani era un bambino: “Otto giorni dopo avrei compiuto nove anni. Ma non avevo paura. Mio padre mi teneva per mano. E mio padre sembrava onnipotente. Lavorava come imbragatore nei cantieri navali di Monfalcone. Si chiamava Cancianillo, ma per tutti era semplicemente Nillo. Mio nonno lo aveva battezzato Cancianillo perché non sapeva più come chiamare i suoi figli: ne aveva avuti 22 da due mogli. Esauriti i nomi comuni, cominciò con quelli dei martiri. San Canzian d’Isonzo, di santi martiri, ne aveva tre, due fratelli e una sorella: Canzio, Canziano e Canzianilla”. Sarebbe diventato un corridore: “A mio padre il ciclismo piaceva, ma sosteneva che fosse una perdita di tempo e che noi non potevamo permettercelo. Così cominciai a correre di nascosto. Quando non potei più nascondermi, avevo già cominciato a vincere. Non fu più facile, ma meno difficile. Dilettante nel Pedale Riminese e nella Padovani, la vittoria nella Coppa Italia e al Trofeo Fenaroli, perfino la maglia azzurra in Francia. Poi professionista”.
Canciani partecipò al Giro d’Italia del 1961: “Con la Ghigi, direttore sportivo Luciano Pezzi, capitano Livio Trapè. Poteva andare meglio. Per dirne una: la nona tappa, la Castellana Grotte-Bari, 53 km a cronometro, ci tenevo a fare bene, partii forte ma dopo una decina di km mi accorsi di andare piano, il forcellino batteva sulla ruota posteriore, mi fermai, lo centrai, ripartii, ma dopo un po’ si era messo come prima. Per dirne un’altra: la decima tappa, la Bari-Potenza, 140 km, ero in fuga da solo, fui raggiunto da Vito Taccone e dal tedesco Hans Junkermann, vinse Taccone, io finii nel gruppo. Per dirne un’altra ancora, l’ultima: l’undicesima tappa, la Potenza-Teano, 252 km, mi fermai già alla partenza per un bisogno impellente, poi consumai 10 berrettini per altri 10 attacchi, infine mi ritirai, prosciugato”.
Povero Canciani: “E povera anche mia madre. Giro del Veneto 1961, Pezzi mi comunicò che, nonostante il contratto biennale, alla fine dell’anno mi avrebbero lasciato a casa. E pensare che per la prima volta mia madre era venuta a vedermi, e aveva dormito alla stazione di Padova perché non aveva altri soldi che per il biglietto del treno. Alla fine della corsa, al velodromo Monti di Padova, mi appoggiai al telaio della bici e mi misi a piangere. Di lì passò Giovanni Proietti, ex ct dei dilettanti e direttore sportivo dell’Ignis e della Fides, appoggiò una mano sulle mie spalle, mi domandò che cosa mi fosse successo, commentò ‘ma è roba da matti”, aggiunse ‘oggi sei arrivato tredicesimo’ e promise che mi avrebbe ingaggiato se alla Bernocchi fossi arrivato con i primi. Ma alla Bernocchi, poco allenato e molto stanco, mi ritirai”.
Canciani non perde un Giro: “E’ sempre un giorno di festa, la domenica un doppio giorno di festa. Il Giro è canti e balli, bandiere e striscioni, una gran festa dell’Unità a pedali. E alla tv o sulla strada, ci sono anch’io”.