Il Foglio sportivo - Il ritratto di Bonanza
La speranza di José Mourinho
L’allenatore giallorosso è diventato grande e quasi nostalgico, con la tenerezza a cui tendono i signori con i capelli bianchi. Ma è sempre pronto ad attaccare il sistema e a dare battaglia: in fondo è lui l’ultimo imperatore di Roma
Non si può vivere senza speranza, diceva il grande poeta. E José non vive più di un’ora senza lei. José si chiama Mourinho ma si potrebbe scrivere in mille altri modi, quante sono le sue facce, le sue espressioni, le parole che sceglie per provocare dei meravigliosi depistaggi ogni volta che una sua squadra perde. Mourinho è diventato grande, ultimamente addirittura un po’ nostalgico, di quella brama di tenerezza a cui tendono i signori con i capelli bianchi. Niente di preoccupante, state sereni o voi che amate la battaglia, José, sotto le vesti di un uomo mite, nasconde la scimitarra dell’offesa, che sguaina ogni volta che finiscono certi argomenti e non si sa più che dire.
E allora si parla dell’uomo che fu nero, l’arbitro, da sempre una forma di ossessione per il portoghese. Non c’è contraddizione tra le due parti di Mourinho, quella tenera dell’allenatore-padre che protegge la sua famiglia con le carezze, e quella dura che attacca il sistema, o qualche figlio snaturato, come fu il povero Karsdorp, trattato alla stregua di un traditore della squadra. José, come il quasi omonimo, divide le acque, spacca il mondo in due emisferi, uno con lui e l’altro chissenefrega, perché non c’è interesse a stare dalla parte opposta alla sua. E può accadere che il nostro, inquieto e provocatorio, si sposti da un lato all’altro, attraversando il mare, a seconda di dove sia un attracco, una speranza appunto. E come dare torto alle sirene, noi giornalisti, perfino vittime del nostro stesso potere, la persuasione, convinti da lui, il re degli attori, quando sia il caso di alzare un sipario e dare il via al prossimo spettacolo. Non siamo abituati a tanto, la scena solitamente è così misera, piena di facce sempre uguali e di parole consunte, ultimamente sopraffatte da espressioni di una tristezza cosmica come “braccetti”, “tanta roba”, “i quinti”, “le letture preventive”. Poi arriva sulla scena il vate e sul pubblico cala il silenzio, rapiti dalla maestria espressiva di un uomo che conosce anche la musica, da come usa le pause, elementi dello spartito.
Ci sarebbero questioni di campo da affrontare visto che parliamo di un allenatore, grida qualche infiltrato dal loggione. Estremamente legittima come obiezione, solo che non trova spazio in queste righe, nelle quali si parla di un uomo, fin da subito oggetto di uno studio fenomenologico. Ci mancherà l’ultimo imperatore di Roma, quando se andrà, se mai sarà. Non è questione di sport ma di spettacolo, che poi a pensarci sono la stessa cosa. Perché tutto è un insieme e ogni cosa è in relazione. Ci sono l’uomo, le sue speranze, le innegabili vittorie, le nostre emozioni, la fine del tutto.