Su cavalli d'acciaio
Dal Giro al Tour de France. Lo sforzo è nulla, senza un cantore che crei la leggenda
Il primo aedo delle due ruote fu Henri Antoine Desgrange, il giornalista che creò il mito della corsa a tappe francese: capì che il lettore d’un periodico sportivo non desidera altro che un atleta al limite delle possibilità fisiche
Come Giovanna D’Arco, distinguo in anticipo le voci che diranno forte fra un paio di settimane: “Ma con queste salite il Giro d’Italia è molto più duro del Tour de France!”. Intendiamoci, questo non significa affatto che in me siano scaturite all’improvviso delle sorprendenti capacità divinatorie, la verità è che ogni anno succede la stessa cosa. La frase puntualmente serpeggia tra gli appassionati. Ormai è un rito, come lo scioglimento del sangue di San Gennaro. Peccato che le parole “Ma con queste salite il Giro d’Italia è molto più duro del Tour de France!” siano prive di qualsiasi fondamento tecnico, ma soprattutto storico e, giochiamoci anche questo asso, pure epistemologico. Dal punto di vista tecnico la questione si risolve con una semplice considerazione, sollevata però da un’autorità, Matteo Tosatto, il direttore sportivo della squadra più forte del mondo: l’Ineos Grenadiers. “Non è possibile fare questo confronto. Il Giro si corre in primavera, il Tour in luglio, con un caldo torrido, soprattutto nel sud della Francia. Ricordo, quando ero corridore, la salita al Col d’Envalira durante il Tour. Era metà luglio, sui Pirenei. La salita è piuttosto semplice, con delle pendenze ridotte, ma con quelle temperature mi son ritrovato a discorrere faccia a faccia con delle creature cortesi, ma a tutti gli effetti immaginarie, che di tanto in tanto s’accomodavano sul manubrio della mia bicicletta”.
Invece il punto di vista storico e culturale è un poco più complesso, ma anche molto più interessante perché introduce una figura davvero leggendaria: il giornalista e direttore del periodico Auto-Velo (poi solo Auto) Henri Desgrange, l’inventore nel 1903 del Tour de France. L’idea in realtà l’ebbe il suo collaboratore Geo Lefevre, ma era una sorta di boutade da tabarin, scaturita dopo un paio di bicchierini di liquore durante una serata tra colleghi, che tuttavia Desgrange prese in considerazione molto seriamente. Sgranò gli occhi, rifletté un poco e alla fine la considerò una splendida invenzione.
“Con queste salite il Giro è molto più duro del Tour!”. Non è vero da un punto di vista tecnico (le stagioni sono diverse) ma soprattutto storico
Allo stesso modo fu Desgrange il primo uomo che comprese che trascinare un atleta al limite delle possibilità fisiche spalancava le porte della leggenda, ciò che il lettore d’un periodico sportivo agognava più di ogni altra cosa. “Siamo noi nell’Auto che abbiamo inventato la leggenda nello sport. Noi offriamo la possibilità a dei barbagianni che vanno in bicicletta di diventare dei ‘giganti della strada’, dei ‘titani’, i veri protagonisti di un’epopea. Però costoro devono essere all’altezza delle parole che noi scriviamo sul giornale. Non possono recedere dall’impegno di essere degli autentici eroi. Così o stanno alle nostre regole oppure, se vogliono pedalicchiare come dei turisti, che tornino pure a fare i barbagianni in bicicletta”. Questo è lo spirito che lo portò per primo a definire, circa 120 anni fa, una concetto che oggi appare persino lapalissiano: è proprio la questione del sacrificio d’un atleta che oltrepassa il limite delle proprie capacità fisiche, quasi trasfigurandosi in un martire, che produce la consapevolezza che il grande ciclismo si può fare solo salendo le montagne. Tuttavia per Desgrange ciò non significava affatto che fosse necessario inserire nel percorso un’asperità di tanto in tanto, come era stato fatto sino ad allora nel Tour de France o nel neonato Giro d’Italia (corso per la prima volta nel 1909), quanto piuttosto di collocare nella medesima tappa un susseguirsi di colli: una corona di Calvari, così che Dio stesso non riuscisse a immaginare la conclusione dell’autodafé. In realtà, ancora una volta, l’idea giunse da un’altra persona, Alphonse Steines, che, a sua volta ispirato dalla vicinanza desgrangiana, propose d’inserire i Pirenei nel Tour de France del 1910. Per la prima volta il Dittatore della Grande Corsa Francese ebbe timore delle proprie invenzioni e si chiese se davvero i giganti della strada che egli stesso aveva creato avrebbero retto il confronto con una prova tanto ardua. Alla fine, però, cedé alle lusinghe d’un sogno a metà cervantesco e a metà dumasiano e stabilì che i Pirenei sarebbero stati oltrepassati.
Così diede l’ordine e alle tre e mezzo del mattino del 19 luglio 1910 attese sulla linea di partenza di Perpignan i 62 superstiti dei 110 corridori che erano partiti da Parigi per affrontare l’ottava edizione del Tour de France. Quel giorno erano previste sui 289 chilometri del percorso le ascese ai primi colli pirenaici della storia del ciclismo: il Col de Port, il Portet d’Aspet e il Col d’Ares. Era già un’impresa molto eclatante, ma per nulla paragonabile a ciò che attendeva i ciclisti due giorni dopo (tra una tappa e l’altra era sempre previsto un giorno di riposo, perché, in fondo, anche Dio s’era riposato durante la creazione). Così il 21 luglio 1910 Victor Breyer, il vice direttore di corsa, abbassò la bandiera davanti ai corridori che s’accingevano a percorrere i 326 chilometri della Bagneres de Luchon-Bayonne. Desgrange aveva rinunciato al ruolo di starter perché era speditamente tornato a Parigi per scrivere dal suo studio, raccogliendosi nella necessaria concentrazione, il reportage di una tappa che già tutti affermavano essere paragonabile alla descrizione di un girone dantesco.
Desgrange è il giornalista che inventò il Tour: “Noi offriamo la possibilità a dei barbagianni in bicicletta di diventare dei titani”
La parte iniziale del percorso attraversava il dipartimento degli Hautes Pyrenees e lungo quei primi 139 chilometri erano inseriti in successione il Col de Peyresourde, il Col d’Aspin, la scalata ai 2.122 metri del Col du Tourmalet e poi il Col d’Aubisque. Nessuno dei partenti riusciva lontanamente a immaginare cosa aspettarsi da quella giornata e ciò accadeva perché nessuno aveva mai osato pensare che degli uomini in bicicletta potessero affrontare un’impresa simile e salire su montagne così alte. Infatti si trattava di una follia nata da un piccolo inganno. In primavera Alphonse Steines aveva perlustrato il percorso per essere abbastanza sicuro che, nonostante l’incontenibile fascino desgrangiano dell’epopea, i corridori non rischiassero l’osso del collo. La cosa importante era verificare le possibilità di transito sul Col du Tourmalet, perché i contadini di Saint Marie de Campan, all’inizio dell’ascesa, sostenevano che neppure in luglio fosse possibile salirlo e proseguire dall’altra parte. Steines iniziò a percorrere il colle sulla sua Mercedes con autista, ma a cinque chilometri dal valico una tormenta di neve impedì loro di proseguire. Il giornalista uscì dalla vettura e continuò a piedi con la neve che gli arrivava sino al ginocchio. Per la pericolosità stava per desistere, ma incontrò un pastore che volentieri l’accompagnò sino al valico. Il vento e la neve offuscavano la vista e salendo non si vedeva più un accidente all’infuori di una distesa bianca, ma il capraio a un certo punto si arrestò e disse: “Ecco, il passaggio è proprio qui. Da qui in poi si scende”. Steines si fidò ciecamente. Tornò tra mille difficoltà all’automobile e poi dall’albergo di Bareges dove alloggiava. Lì, alle tre di mattina, telegrafò a Desgrange: “Ho superato il Tourmalet – STOP – La strada è molto buona – STOP – Perfettamente praticabile – STOP – Firmato Steines”. Fu questo dispaccio telegrafico che rese possibile l’inizio della grande metafora dei “corridori che sfiorano il cielo pedalando sopra i loro cavalli d’acciaio” che ancora oggi viene perpetuato adoperando parole differenti.
L’inserimento dei Pirenei nel Tour del 1910 fu una follia nata da un piccolo inganno: un sopralluogo guidato da un pastore
Alle tre e mezza del mattino, abbassata la bandiera, i cinquantanove pedalatori presero subito a salire il Col de Peyresourde, aiutati dal lume a carburo legato sul manubrio, così da vedere gli ostacoli sulla strada e non scivolare durante la salita oppure, con molte più probabilità, durante la discesa, dentro il precipizio. Scalarono tutti i colli su “dei sentieri a strapiombo sui burroni, affrontabili solo dalle capre” e arrivarono a Bayonne quattordici ore dopo. In quelle quattordici ore si poté vedere di tutto: atleti che si rifugiavano nelle locande e che non volevano più uscire, altri che, devastati dallo sforzo, rimanevano seduti su un masso per molto tempo, finché qualcuno non li scuoteva dal profondo torpore provocato dalla fatica. Tuttavia anche l’udito reclamò la sua parte e tra tutti gli spaventosi improperi che traboccarono lungo la strada rimasero indelebili quelli lanciati da Octave Lapize (l’uomo che vinse la tappa e il Tour de France 1910) all’indirizzo d’uno degli ispettori di corsa quando valicò l’Aubisque: “Siete solo dei criminali! Ditelo a Degranges. Siete dei criminali! Non si può chiedere a degli uomini di fare uno sforzo simile!”. Intanto il cuore di Henri Desgrange si gonfiava d’orgoglio mentre riceveva i dispacci telegrafici che provenivano dal cuore dei Pirenei e raccontò la giornata usando termini mirabolanti, che avevano anche a che fare cogli eroi dell’Iliade, facendo divampare una volta per tutte il fuoco eterno dei “giganti della strada” e dei “corridori che sfiorano il cielo pedalando sopra i loro cavalli d’acciaio”.
La leggenda s’accrebbe nel tempo: Lapize e Faber, primo e secondo nella classifica finale, morirono sul fronte della Prima guerra mondiale
Così, tornando alla questione iniziale, quella della durezza delle salite al Giro e al Tour, si comprende bene come non esista affatto la necessità di assegnare un valore alla maggiore o minore difficoltà di un’ascesa, a meno che qualcuno non decida di attribuire allo sforzo per affrontarla un’aura di leggenda. La creazione di codesta aura, non c’è discussione in proposito, va interamente attribuita a Henry Antoine Desgrange, di professione giornalista e patron del Tour de France. Tutto ciò che è venuto dopo è bene o male una conseguenza. Persino la leggendaria Cuneo-Pinerolo del 10 giugno 1949, l’apogeo del mito di Fausto Coppi, è il seguito di quell’intuizione, corsa che venne peraltro disputata per quasi metà in territorio francese, ricalcando il tracciato ancora una volta inventato da Desgrange nel 1922 quando decise d’includere nel percorso del Tour de France il Col de Vars e il Col d’Izoard. Ma la leggenda creata sui Pirenei il 21 luglio 1910 non si esaurì col transito di Octave Lapize e Pierino Albini sul traguardo di Bayonne, seguiti dopo dieci minuti da Francois Faber.
S’accrebbe invece nel corso del tempo, perché i due grandi sfidanti di quell’edizione del Tour de France, Lapize e Faber, primo e secondo nella classifica finale, morirono sul fronte durante la Prima guerra mondiale. Lapize venne abbattuto durante un duello aereo sopra Verdun, Faber fu una delle quasi 200.000 vittime della seconda battaglia dell’Artois, lanciata dai francesi per conquistare il crinale di Vimy, conclusasi dopo un mese e mezzo di combattimenti senza che fossero stati guadagnati neppure cento metri di terreno. Il corpo di Francois Faber, soprannominato il Gigante di Colombes, non venne mai più ritrovato, sepolto dai movimenti del terreno e dei detriti causati dalle esplosioni dei proiettili dell’artiglieria pesante esattamente nel luogo che Desgrange, subito dopo la guerra, chiese di esplorare per verificare la possibilità di far transitare la Parigi-Roubaix del 1919. La risposta telegrafica di Victor Breyer, il fido esploratore, continua ancora oggi a risuonare: “Monsieur Desgrange di qui non si passa – STOP – qui è un inferno – STOP – è l’Inferno del Nord – STOP – Firmato Breyer”.
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA