Un altro Giro
"Finire il Giro è comunque una vittoria"
“La corsa rosa era un grande gioco. E la vita dovrebbe esserlo”. Parla Alberto Tazzi che fu penultimo nel 1972
Giro d’Italia 1972. Cento partiti, sessantanove arrivati. Eddy Merckx primo e Alberto Tazzi sessantottesimo (cioè penultimo) a un’ora, 56 minuti e 24 secondi, che a una media di oltre 36 all’ora (quella di Merckx) si traducevano in una settantina di chilometri di distanza. “Finire il Giro – commenta Tazzi – fu comunque una vittoria”.
La corsa rosa è un giro di ricordi e sogni, avventure e disavventure, imprese e crisi, storie e passioni. Un altro Giro è la rubrica di Marco Pastonesi che ci accompagnerà strada facendo sulle strade del Giro d'Italia 2023.
Sestese (di Sesto Fiorentino), del 1946, figlio unico, papà pistard (ma piste di atletica leggera, un terzo posto ai campionati italiani nei 5mila metri) poi tipografo, mamma casalinga, lui studente fino alla terza media poi ad aiutare in tipografia, finché gli apparve la bicicletta. La prima corsa: “A Incisa Valdarno, mi iscrissi sotto falso nome, cioè il nome era vero, ma non era il mio, era quello di un mio amico, Bruno Rosi. Avevo 15 anni, e si era autorizzati a correre solo dai 16 in su. Però gli organizzatori chiudevano un occhio, a volte due, come se ci fosse un tacito accordo. Sembrava andare tutto bene: un corridore in fuga, un altro all’inseguimento, ed ero io, poi il gruppo. Invece non andò tutto bene: il corridore in fuga arrivò al traguardo, io venni ripreso dal gruppo a 200 metri e finii decimo”. La seconda corsa: “Con la maglia della Sestese. Fui riconosciuto. Ma l’altra volta, mi domandarono, come ti chiamavi?”. La prima vittoria: “A Mercatale Valdarno. Da solo al traguardo. Almeno una cosa l’avevo capita: se avessi voluto vincere, al traguardo sarei dovuto arrivare da solo. Perché la volata non era certo il mio forte”.
A Sesto Fiorentino abitava Alfredo Martini: “Martini stava a Sesto come Bartali a Ponte a Ema e Coppi a Castellania. O forse come quei due stavano all’Italia. Smesso di correre, Alfredo aveva chiuso con il ciclismo, ma del ciclismo sapeva tutto. Andavo nel suo negozio di abbigliamento e lui mi chiedeva della corsa e dei corridori, degli organizzatori e degli spettatori, delle corone e dei pignoni, poi si raccomandava che mi allenassi bene e mi riposassi bene, che mangiassi giusto e bevessi tanto. L’ultimo anno da dilettante, il 1969, dalla Sestese passai al Bottegone, uno squadrone, conquistai cinque vittorie, anche prestigiose, come il Gran premio Sportivi a Poggio alla Cavalla. E Martini, tornato al ciclismo come direttore sportivo della Ferretti, mi chiamò. Professionista, contratto base, cifre basse. Mi avevano cercato anche dalla Salvarani. Ma a Martini non si poteva dire di no”.
A Tazzi sembrava di sognare: “Raduno invernale al Grand Hotel Terrazza Mascagni di Livorno. Squadra italiana rafforzata da quattro fratelli svedesi. Per noi, per tutti, i corridori svedesi rappresentavano una novità, una stranezza. Ma non per Martini. Il giorno in cui i quattro fratelli svedesi si unirono a noi italiani, Martini ci disse che saremmo andati a prenderli all’aeroporto di Pisa: noi in bici e lui in ammiraglia con quattro bici sul tetto. I quattro fratelli scesero dall’aereo, si cambiarono, salirono sulle quattro bici portate da Martini e, tornando al Grand Hotel, cominciarono subito a menare. E solo a quel punto capimmo quanto fossero forti. La prima corsa da professionista fu un circuito a Terracina: decimo in volata”.
Nel 1972, finalmente, il Giro d’Italia: “Non più alla Ferretti, ma alla Magniflex. Gregario, anche se di veri capitani, in squadra, non ce n’erano. Facevo fatica, ogni giorno un po’ di più. Ma alla tredicesima tappa, la Forte dei Marmi-Savona, 200 km, intravvidi l’occasione giusta. A un paio di chilometri dall’arrivo attaccò Vilmo Francioni, mio ex compagno di squadra alla Ferretti. Lo inseguii, lo raggiunsi. Ma all’ultima curva lui entrò a tutta, io no. E mi staccò. Finii quindicesimo. Il giorno dopo c’era la Savona-Jafferau, con le salite di Cadibona, Sestriere e Jafferau. Vinse Merckx, che aveva anche la maglia rosa, e non si accontentava mai, io finii settantunesimo. Però il giorno dopo il mio nome era stampato sulla prima pagina della ‘Gazzetta dello Sport’, uno dei cinque corridori che non era stato spinto sulla salita finale. Forse perché, commentai, non mi hanno visto, avvolto in una nuvola come quella di Fantozzi”.
Tazzi che non si concedeva scaramanzie o superstizioni (“Solo una medaglietta al collo, quella della prima comunione, regalo di mia madre”), Tazzi che non assaltava bar ma fontane (“Proprio in quel Giro, nella Foggia-Montesano sulla Marcellana, 238 km, vinta dal mio amico e compagno di squadra Fabrizio Fabbri, vidi corridori riempire borracce negli abbeveratoi dei maiali. Quella volta rinunciai”), Tazzi che una volta assaltò un collega (“Sempre in quel Giro, davanti un gruppetto di 14 in fuga, dietro io a inseguire, arrivai a 10 metri ma non riuscivo a entrare, finché dal davanti si staccò un corridore sfinito, mi aggrappai ai suoi pantaloncini e presi lo slancio, io finalmente rientrai nel gruppetto, lui si staccò definitivamente e mi maledì sinceramente. La sua maledizione funzionò: all’ultimo chilometro, quando contavo di giocarmela in volata, forai”).
Tazzi che da 50 anni gestisce un negozio di giocattoli a Coverciano: “Il Giro d’Italia era un grande gioco. E la vita dovrebbe esserlo”
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