dopo l'euroderby
L'eccezione di Paolo Maldini
Commentare una sconfitta, come l'uscita dalla Champions League contro l'Inter, in una maniera diversa dalla lamentela struggente è qualcosa a cui il calcio italiano non è abituato
Abituati da anni ad ascoltare allenatori e dirigenti che faticano a commentare una sconfitta in una maniera diversa dalla lamentela struggente, osservare Paolo Maldini che si presenta ai microfoni post partita con il suo regale distacco è quasi un’esperienza religiosa. Il suo discorso potrebbe non essere piaciuto ai milanisti più accaniti – ma del resto c’è chi ha fatto fatica a convivere con la sua persona anche quando del Milan era il più nobile emblema in campo, perennemente impeccabile, testa alta e fascia al braccio – e ancora inevitabilmente scottati dall’eliminazione arrivata per mano dell’avversario meno gradito, ma dovrebbe rappresentare un faro per tutto il calcio italiano. Maldini che parla di un Milan "conscio del proprio livello", riconosce i meriti dell’Inter e la fatica fatta dai suoi giocatori a reggere il peso di una stagione così serrata è un’ammissione fatta in pubblico e senza drammi. Nel suo discorso, dai toni pacati e sempre estremamente focalizzato, ha analizzato le scelte giuste e quelle sbagliate, soffermandosi sui dubbi che aleggiano attorno al ruolo di Origi e sull’impatto praticamente nullo di De Ketelaere, riconoscendo che sarebbe stato molto più semplice portare a Milano Paulo Dybala per poi chiedere alla platea: "Sarebbe stato un acquisto giusto per il nostro progetto? Sarebbe stato giusto e condiviso dalla proprietà? No. Abbiamo un’idea, la volontà di costruire una squadra giovane e talentuosa. Ci vuole tempo". E poi, dopo una pausa scenica, durata qualche istante, ha messo sul tavolo il tema che tutti erano pronti a rinfacciargli, quello del blasone: "Ma sempre essendo consci che siamo il Milan. Chi può saperlo meglio di me?".
Maldini affronta il momento più bruciante della stagione milanista con la faccia ferma e l’espressione apparentemente priva di sforzi anche se sta soffrendo quanto i tifosi che hanno appena lasciato San Siro, anzi, forse addirittura più di loro. Ma sa di non poterlo dare a vedere, di dover conservare quest’aria lucida, imperturbabile. In questo fiume di pensieri sempre meravigliosamente controllato, ha lasciato lì una frase che sembra racchiuderne davvero l’essenza più profonda: "Prendere le responsabilità è una bella cosa, a me è sempre piaciuto". Mancano tre partite alla fine di un campionato balordo per il Milan, segnato dagli infortuni, da molti passaggi a vuoto e da alcune scelte indubbiamente sbagliate in sede di mercato: anche a non voler puntare il fucile su De Ketelaere, viene da chiedersi a cosa sia servito l’arrivo di Adli, 140 minuti stagionali costati poco meno di 10 milioni di euro. Ma a prescindere dalle questioni tecniche e da una qualificazione alla prossima Champions League che al giorno d’oggi fa la differenza a livello economico, resta forte la sensazione che il futuro del Milan, più che dai giocatori e dall’allenatore, passi dalla permanenza o meno di Paolo Maldini, imperturbabile e responsabile in mezzo alla tempesta, modello comunicativo difficile da seguire e che invece dovrebbe risultare ispiratore e motivazionale per un calcio nel quale, in fin dei conti, la colpa è sempre di qualcun altro.