Un altro Giro
Quando il Giro d'Italia è sospeso tra inferno e paradiso
La corsa rosa del 1962 di Olimpio Paolinelli: "Ero un corridore ibrido. Me la cavavo dappertutto, in volata battevo Bitossi, la salita era il mio forte, ma la verità è che eravamo tutti più forti di quelli che lo corrono oggi. Nati scalzi, cresciuti senza riscaldamento, temprati chi dalla guerra e chi dalla fame"
Lui, in paradiso, c’è già stato. Il 21 maggio 1962. Un lunedì. Giro d’Italia, terza tappa, la Sestri Levante-Panicagliora, 225 chilometri. “Tre uomini in fuga. Io, Germano Barale e il belga Jos Hoevenaers. Traguardo tricolore a Castelnuovo, ma in Carbonaia. Quasi a casa mia. E lo vinsi”. Se è per questo, lui è già stato anche in purgatorio. Quattro giorni dopo, il 25 maggio 1962. Un venerdì. Giro d’Italia, settima tappa, la Fiuggi-Montevergine di Mercogliano, 224 chilometri. “Avevo la febbre. E la pagai. Arrivai al traguardo, ma fuori tempo massimo”.
Olimpio Paolinelli, lucchese di Piegaio Basso di Pescaglia e poi di Castelnuovo di Garfagnana, una vita leggendaria. A cominciare dal nome: “Mio padre voleva chiamarmi come Bizzi, che si chiamava Olimpio, ma che da tutti era chiamato ‘il Morino’, un fenomeno di Livorno che batteva anche Gino Bartali. All’anagrafe scrissero Olimpo invece di Olimpio, e quell’errore mi perseguita a ogni richiesta di certificato”. A continuare con la famiglia: “Papà Virgilio e mamma Pia, mezzadri. Sette fratelli e cinque sorelle, io il decimo. Voglia di studiare poca, per non dire niente. A finire la quinta elementare si era già fortunati, eppure io a metà anno la abbandonai. Finché uno dei miei fratelli tornò dall’Africa, dov’era stato prigioniero di guerra come Fausto Coppi, domandò che cosa facessi a casa, poi mi prese per le orecchie e mi riportò in classe, e per non perdermi di vista l’insegnante, d’accordo con mio fratello, mi sistemò vicino alla cattedra”. A proseguire con il lavoro, anzi, i lavori: “A 13 anni ero già come un uomo grande. Contadino, boscaiolo, operaio, norcino, più tardi forestale... E corridore”.
La corsa rosa è un giro di ricordi e sogni, avventure e disavventure, imprese e crisi, storie e passioni. Un altro Giro è la rubrica di Marco Pastonesi che ci accompagnerà strada facendo sulle strade del Giro d'Italia 2023
Leggendario anche come corridore, l’Olimpo-Olimpio: “La passione ereditata da mio padre, buon ciclista, campione italiano indipendenti. La prima bici fu quella di Antonio Poli, prima corridore e poi meccanico a Lucca. Saldava, montava, verniciava con il pennele lo. Avevo risparmiato 20 mila lire tagliando e vendendo legna d’inverno, la bici me ne costò 18 mila, me ne rimasero 2 mila. La prima vittoria a San Salvatore di Montecarlo, fino a mezzogiorno un temporale terribile, alle 15 la partenza, ci arrivai con lo zainetto, il gruppo era già partito, il direttore di corsa lo fermò e ordinò di aspettarmi, poi li staccai tutti. Ero un corridore ibrido. Me la cavavo dappertutto, in volata battevo Bitossi, la salita era il mio forte, ma la verità è che eravamo tutti più forti di quelli che lo corrono oggi. Nati scalzi, cresciuti senza riscaldamento, temprati chi dalla guerra e chi dalla fame, anche se noi contadini eravamo più fortunati, e noi Paolinelli, con quattro mucche, grano, patate e di nascosto il latte, anche durante la guerra ce la cavavamo. E poi la passione. Ancora adesso non mi perdo una tappa del Giro alla tv. Il Giro è una festa anche per chi lo corre”.
Un anno e mezzo da professionista, l’Olimpo-Olimpio: “Prima con la Ignis, con cui feci anche un ritiro a Varese, poi subito con la Torpado, che mi offriva poco di più, ma sempre poco di meno di quello che guadagnavo al salumificio: 70 mila lire al mese per 10 mesi invece di 90 mila al mese per 12 mesi, ma stare in sella era meglio che stare dietro il bancone. Con la Torpado partecipai al Giro del 1962, mi tolsi la soddisfazione delle corse e la curiosità del corridore, cercai lavoro, risposi a un’inserzione sul giornale, era la Cite che cercava un venditore di stabilizzatori per televisioni per la Spagna, mi ritrovai a correre per altre tre-quattro mesi per la Cite che aveva anche una squadra di professionisti diretta da Sandrino Carrea e Michele Gismondi, due gregari di Fausto Coppi”.
Ne avrebbe da raccontare, l’Olimpo-Olimpio: “Quella volta che, ancora dilettante, stabilii il record sul Ghisallo, meglio di Coppi. Quella volta che, da professionista, al Giro di Lombardia del 1961, dopo Ghisallo e Superghisallo, staccato per due forature, sulla salita di Sormano recuperai e staccai perfino Jacques Anquetil. Quella volta che, al Giro del Piemonte del 1963, valido come premondiale, nel circuito di Valenza Po, pronti-via-in-fuga, a ogni giro in premio uno spillo d’oro e una damigiana di Freisa, primo nei primi sei giri, la corsa era di sette giri e al settimo scoppiai, peccato, però tornai a casa arricchito. Quella volta che, nel circuito di Firenze, ma a Sesto Fiorentino, del 1962, tirai la volata a Guido Carlesi, che non era della mia squadra, il mio direttore sportivo Vasco Bergamaschi mi domandò perché lo avessi fatto, gli dissi la verità, Carlesi mi ha promesso 150 mila lire. Quella che volta che, smesso per una decina di anni, tornai a correre, maglia bianca e azzurra Fanini, bici Alan, ma da isolato, come un passatempo, ma il tempo era passato”.
Paolinelli, 87 anni il prossimo 15 novembre, avrebbe poi avuto una seconda vita, forse una terza o quarta, nella corsa a piedi: “Su pista e in montagna, campestri e maratone, campione toscano e italiano, vincitore al Passatore e riserva ai Mondiali. Magari ve lo racconto la prossima volta”. Affare fatto.
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