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calcio a processo

Ascoltare Mourinho, sulla Juve, per capire la farsa della giustizia sportiva

Claudio Cerasa

La decisione dei giudici di penalizzare di dieci punti i bianconeri è buona solo per alimentare il becerume del processo mediatico 

Ha ragione da vendere José Mourinho, il nostro amato Special One, quando dice che la penalizzazione inflitta alla Juventus dalla giustizia sportiva è qualcosa di simile a una farsa. Lo ha detto lunedì sera al termine della partita pareggiata dalla Roma contro la Salernitana. E lo ha detto in modo che più chiaro non si può: “Sì, la penalizzazione della Juve ha compromesso il campionato. E sapere questa cosa con due partite da giocare, per noi, per tutti, anche per la Juve, a me sembra uno scherzo”.

Se si sceglie di ragionare sulla vicenda della Juventus senza farsi influenzare dall’appartenenza calcistica, non dovrebbe essere difficile comprendere che ciò che la giustizia sportiva ha fatto con la squadra allenata da Massimiliano Allegri è qualcosa che si trova a metà tra un atto ridicolo e uno scherzo di cattivo gusto. La giustizia sportiva, che lunedì ha deciso di penalizzare la Juventus di dieci punti nell’ambito di un’inchiesta federale sul caso plusvalenze, ha scelto di condannare la Juventus per aver violato una regola che non esiste nell’ordinamento sportivo (le plusvalenze, appunto). Ha scelto di non considerare ciò che la giustizia sportiva aveva detto un anno fa proprio sulle plusvalenze (“non esiste un metodo di valutazione dei giocatori”). Ha scelto di far rivivere come se nulla fosse un processo che aveva già chiuso lo scorso anno (né oggi né ieri la giustizia sportiva ha individuato una controparte con cui la Juve avrebbe fatto affari loschi, sulle plusvalenze). Ha scelto di far rivivere quel processo in seguito a un’indagine aperta dalla procura di Torino (sulle plusvalenze e sul falso in bilancio) sulla quale non si è però pronunciato ancora alcun giudice terzo (a dimostrazione che la giustizia sportiva risponde più alle pressioni mediatiche che allo stato di diritto). E la giustizia sportiva ha fatto tutto questo non aspettando di conoscere l’esito delle indagini penali, almeno di primo grado, ma facendo di tutto per punire preventivamente la Juventus, il cinghialone del calcio italiano, direttamente a campionato in corso, cambiando le classifiche, cambiando le penalizzazioni, cambiando le prospettive di un campionato e falsando, come giustamente ha detto lunedì Mourinho, un’intera corsa per aggiudicarsi, il prossimo anno, l’ingresso nelle coppe che contano – cosa che per esempio non è capitata in Inghilterra, dove il Manchester City, di Pep Guardiola, ha vinto il campionato nonostante la presenza di un’indagine contro la sua squadra, accusata di oltre cento violazioni delle regole finanziarie dalla giustizia sportiva inglese, che a differenza di quella italiana considera evidentemente non secondaria la necessità di condannare una squadra di calcio in presenza non di sospetti ma di prove schiaccianti.

E’ possibile che la Juventus abbia commesso i gravi reati di cui è accusata (si è chiesto giustamente la scorsa settimana il ministro Giancarlo Giorgetti: “Ma se una società ha fatto un falso in bilancio perché togliere i punti e non intervenire direttamente sul suo patrimonio?”). E’ possibile che i dirigenti indagati abbiano commesso degli illeciti (ha davvero torto chi si chiede perché debba essere coinvolta una squadra intera se la responsabilità penale è personale?). Ma è impossibile non notare che avere una giustizia sportiva che sceglie, senza prove provate, di punire una società di calcio per reati di cui sono competenti gli organi della giustizia ordinaria (i tribunali) e le istituzioni che giudicano i comportamenti di una società quotata (la Consob) è il segno di un male evidente. E’ il segno di una giustizia che sceglie di agire senza tenere in considerazione il dovere di condannare avendo a cuore il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Ed è il segno di una giustizia sportiva che occupandosi solo di ciò che non le compete dimostra ogni giorno di più  di essere non solo ingiusta ma anche perfettamente inutile, se non per soddisfare solo le esigenze becere del processo mediatico.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.