Il Foglio sportivo
L'ultima meta di Parisse, il più grande. L'addio al rugby dell'azzurro
È stato il più forte rugbista italiano di tutti i tempi, senza dubbio: capitano della Nazionale per undici anni, in campo 142 volte con gli Azzurri, vincitore di due scudetti, una Coppa Italia, due campionati francesi e due Challenge Cup
Scriveva Franco Califano, in un brano che Ornella Vanoni rese leggendario “Ecco, la musica è finita, gli amici se ne vanno”. Niente più di questa canzone descrive meglio la fine della carriera di uno sportivo come Sergio Parisse, con la differenza che domani sera, quando l’arbitro fischierà la fine di Tolone-Bordeaux, ultima giornata del campionato francese di rugby, dopo che la musica sarà finita, gli amici, i tanti che Sergio si è fatto nel suo ventennio abbondante con la palla ovale tra le mani, non se ne andranno.
Parlare di Parisse solamente come giocatore di rugby è riduttivo. È stato il più forte rugbista italiano di tutti i tempi, senza dubbio: capitano della Nazionale per undici anni, in campo 142 volte con gli Azzurri, vincitore di due scudetti, una Coppa Italia, due campionati francesi e due Challenge Cup (l’ultima conquistata con Tolone lo scorso 21 maggio, segnando anche una meta). È stato però anche un leader, un’icona di stile, uno sportivo universale, che ora, a tre mesi e mezzo dal suo quarantesimo compleanno, ha scelto di dare l’addio al rugby giocato.
“Se dovessi pensare a un atleta che a quasi quarant’anni era in questa forma, mi verrebbe in mente solo Michael Jordan”, dice Andrea Cimbrico, responsabile della comunicazione della Federazione italiana Rugby, che prosegue: “Abbiamo iniziato a lavorare insieme quindici anni fa, eravamo entrambi dei ragazzi. Io venivo da Marco Bortolami, un altro grande capitano azzurro, ma ci siamo subito capiti. Nel tempo il nostro rapporto è maturato, ma siamo maturati anche noi. Il Parisse della conferenza stampa dopo la vittoria con il Sudafrica nel 2016 (quella in cui, alla prima domanda di un collega che gli chiese se fosse il più grande successo della storia del rugby italiano, rispose “sì, possiamo finire qui la conferenza” tra le risate e gli applausi di tutti i presenti) era diverso da quello della vittoria al Flaminio con la Scozia del 2008. La sua eredità sportiva andrà ben oltre il campo, ha segnato un’epoca”.
La leadership è il tratto distintivo di un giocatore che ha saputo comprendere gli equilibri di una Nazionale che storicamente ha perso più partite di quante ne abbia vinte. È più facile guidare un gruppo che vince spesso, ma è più importante prendersi delle responsabilità quando le cose non vanno secondo i piani, come nel 2016, quando un drop sbagliato all’ultimo secondo da Parisse negò una storica vittoria all’Italia a Parigi contro la Francia.
“Di sicuro non abbiamo perso la partita per colpa di Sergio – spiega George Biagi, che oggi è Head of Rugby Operations alle Zebre, ma che era in campo con la nazionale quel giorno –, però devo dire che in allenamento l’ho visto mettere dentro dei drop che tanti trequarti non avrebbero messo dentro. Non mi stupì che si prese quella responsabilità, perché è sempre stato un giocatore coraggioso, un esempio per tutti. Spesso si è caricato sulle spalle il peso di una squadra in difficoltà, ma lo ha fatto con naturalezza. È un professionista a 360 gradi: il suo modo di pensare e di vivere il rugby lo ha portato a giocare fino a quarant’anni. Lo paragono a Paolo Maldini”.
C’è chi giura che fosse uno che pensava da grande campione già da ragazzino e che questo coraggio e questa applicazione mentale si vedessero al primo sguardo. Davide Macor, giornalista e scrittore, faceva parte del gruppo che disputò il mondiale under 19 del 2002. Ricorda bene che impressione gli fece Parisse la prima volta in cui lo vide: “Lo incontrai durante i campi di preparazione all’attività internazionale. Era un bambinone con delle doti stratosferiche, un uomo squadra già a diciott’anni: nonostante fosse sia fisicamente che a livello tecnico cinquemila passi sopra a tutti noi altri, era di un’umiltà esemplare. È sempre stato un bravo ragazzo”.
Domani questo bravo ragazzo smetterà di giocare, lasciando un vuoto generazionale: è entrato in Nazionale con la generazione dei nati negli anni 70 e si ritira giocando accanto a quelli nati nel 2000.
Eppure, nessuno vuole credere che il sipario stia per scendere. Non per sempre almeno. “Voglio ringraziarlo per quello che ha fatto e dirgli “ma dai, fatti un altro anno”” dice Biagi. “Ma sei sicuro sicuro? È la tua risposta definitiva? La accendiamo?” chiede Cimbrico. “Oh, io alleno una discreta squadra di Serie C (il Pasian di Prato, in Friuli ndr.) … Se vuoi venire a giocare qui magari ci dai una mano” propone Macor.
Ecco, la musica è finita, ma gli amici sono rimasti.