Nikola Jokic dopo aver vinto la finale di Conference (LaPresse)

Il Foglio sportivo

La prima volta di Denver nella finale Nba

Roberto Gotta

I Nuggets di Nikola Jokic alle Finals. La storia di una franchigia in perenne lotta con il football, dagli esordi fino all’ultimo gradino della qualificazione. E ora può addirittura sognare il titolo

Rotolando verso ovest, dopo quasi duemila chilometri di pianura più o meno ondulata, i grattacieli di Denver che appaiono quasi all’improvviso sullo sfondo delle Montagne Rocciose hanno qualcosa di onirico, specialmente quando la distanza li avvolge di aria tremolante, come un’oasi. Un’immagine che è difficile dimenticare, e che non per nulla i Nuggets a lungo hanno utilizzato come tema principale della loro divisa di gioco, bizzarra all’apparire e oggetto, ora, di tantissime nostalgie. Denver, finalista Nba per la prima volta, Denver che non è mai stata piena città di basket perché in America (quasi) nessuna metropoli che abbia una squadra Nfl può essere altro che dominata dal football, ma che grazie alla pallacanestro ha saputo vivere momenti che hanno raccontato la storia del professionismo. A partire dai Rockets, squadra fondatrice della Aba, la lega sorta nel 1967 per fare concorrenza alla Nba. Rockets di maglia neroarancio, perché Ringsby Rocket era l’azienda di trasporti pesanti del proprietario Bill Ringsby e neroarancio era il suo simbolo.

 

Quasi subito, una buona media spettatori e un gioco spettacolare, due elementi legati in maniera spesso sottovalutata quando si parla di basket professionistico e di Ovest: in città di popolazione nuova, in gran parte proveniente da altrove, l’unica maniera di farla affezionare era quella di produrre un gioco brillante e divertente. Denver ci riuscì, salendo ancora quando, nel 1969, firmò Spencer Haywood. Campione olimpico nel 1968, fu il primo a passare professionista senza aver finito il college, facendo leva sulla neonata clausola di ‘indigenza’ che nel suo caso aveva un valore reale, dato che la madre aveva ancora in casa otto figli e guadagnava due dollari al giorno lavorando nei campi del Mississippi. Con Haywood, che rimase per una sola, favolosa stagione da Mvp, prima di passare alla Nba, l’attenzione, con una serie di 21 tutto esaurito, crebbe al punto da far approvare il progetto dell’arena che avrebbe sostituto l’Auditorium (solo 7.000 posti), e non per nulla nella sua autobiografia lo stesso Spencer scrisse “altro che McNichols Arena, avrebbero dovuto chiamarla Haywood’s House”.

 

Erano tempi tra l’avventuroso e l’eroico: per le trasferte i Rockets non utilizzavano voli di linea ma un DC3 della Seconda Guerra Mondiale di proprietà di Ringsby, ritoccato in maniera minima e pilotato da un reduce che con la scusa del panorama preferiva rotte TRA e non SOPRA le montagne, terrorizzando così giocatori e staff tecnico. Il salto di qualità fu però quello tra 1974 e 1975: con la nuova proprietà di Frank Goldberg and Bud Fischer arrivarono dal North Carolina come general manager Carl Scheer e come coach Larry Brown, nel draft venne scelto David Thompson di North Carolina State, avvenne il sospirato trasferimento alla McNichols Arena e il nome diventò ‘Nuggets perché si sperava nel passaggio alla Nba e ‘Rockets’ ce l’aveva già Houston. La presenza di Thompson, idolo giovanile di Michael Jordan e atleta che a Jordan avrebbe potuto essere pari se non si fosse perso nell’uso di droghe, piaga del basket professionistico di quegli anni, diede ai Nuggets il triplo degli abbonamenti e la spinta per tornare rilevanti in un periodo in cui la città si stava trasformando da agglomerato considerato ancora di frontiera dal resto degli Stati Uniti a metropoli di primo piano nello sport.

 

Prima che i Broncos diventassero ancora più un’ossessione in un favoloso 1977 (e ’77’ è il titolo di uno splendido libro sul tema) concluso con l’arrivo al Super Bowl, peraltro perso, i Nuggets avevano raggiunto la finale Aba, nella primavera del 1976: avevano ceduto 4-2 contro i New York Nets di uno splendido Julius Erving, ma nel percorso avevano ulteriormente cementato la posizione di punto di riferimento cestistico non solo di Denver e del Colorado, ma di un’intera regione comprendente le parti più prossime del Wyoming, del Nebraska, persino del New Mexico. Un successo coronato dall’ammissione nella Nba dal 1976, assieme a Indiana Pacers, San Antonio Spurs e ai Nets, da una notorietà e da una brillantezza che mitigarono l’effetto traumatico di un evento di alcuni anni prima: vistosi assegnare le Olimpiadi invernali del 1976 grazie al lavoro frenetico di un gruppo di imprenditori, il Colorado le aveva poi… rifiutate a larga maggioranza tramite un referendum proposto da Dick Lamm, avvocato ambientalista spaventato all’idea dei danni alla natura provocati dall’afflusso di visitatori e di potenziali nuovi cittadini.

 

Eletto poi Governatore, Lamm, di fronte ad una popolazione urbana passata dai due milioni e mezzo del 1972 agli oltre quattro milioni del 1998, anni dopo disse amaramente “quello che mi delude è che il Colorado che non volevo nascesse con le Olimpiadi è nato anche senza Olimpiadi”. Il salto di quantità, allora, non solo di qualità, con Denver finalmente metropoli di sport e Nuggets popolari quasi quanto i Broncos, ma mai vincenti e mai finalisti: se la squadra di football, dopo aver perso male i Super Bowl del 1987, 1988 e 1990 ha poi vinto quelli del 1998, 1999 e 2016, i Nuggets fino all’altro giorno erano rimasti l’unica squadra ex-Aba a non aver raggiunto nemmeno la finale. Lacuna colmata, almeno quella. E con Jokic il sogno può continuare.

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