Un altro Giro

Le evasioni di Livio Trapè (non solo) al Giro d'Italia

Marco Pastonesi

Fu nella corsa rosa del 1961 che l'ex corridore si ruppe un femore e non fu più se stesso. Prima, alle Olimpiadi di Roma 1960 vinse l'oro con il quartetto della 100 km e l'argento nella prova in linea. "Sfiorai la doppietta. Quell'argento fu amarissimo. Ci sto ancora male al solo pensarci”

Montefiascone, patria di vini (Est Est Est) e di pellegrini (Via Francigena) e culla di ciclisti campioni. Per dirne due: Sante Ranucci, mondiale nei dilettanti, anno 1955, e Livio Trapè, oro e argento olimpici, anno 1960. Ranucci è evaso dal gruppo una settimana fa: aveva quasi 90 anni. Invece le evasioni di Trapè sono, in questo periodo, quotidiane: salta sulla bici e, alla bellezza di 86 anni (compiuti ieri), si gode la sua cinquantina di chilometri in un giro – un altro Giro, appunto -, aerato e alberato, che sfiora Civita di Bagnoregio.

    


La corsa rosa è un giro di ricordi e sogni, avventure e disavventure, imprese e crisi, storie e passioni. Un altro Giro è la rubrica di Marco Pastonesi che ci accompagnerà strada facendo sulle strade del Giro d'Italia 2023 


      

Il primo Trapè a pedali è Tarquinio: “Mio padre, uno dei primi patentati, a quattro ruote, della provincia di Viterbo, autista di corriere, da Montefiascone a Roma e da Roma a Montefiascone lungo la Cassia, poi autista di camion, mulini e farina. Di ciclismo ne sapeva”. Il secondo Trapè a pedali è Ardelio: “Mio fratello, maggiore di 18 anni, dilettante, ma di quelli forti, poi la guerra in Africa, addetto ai controlli e al ripristino delle linee telefoniche, perciò in prima linea. Quando tornò, ricominciò a correre e a vincere. Da corridore e poi da allenatore”. Il terzo Trapè a pedali è lui, Livio: “Sesto di tre fratelli e tre sorelle, alto e magro, troppo gracile per correre in bici, sentenziò Ardelio, che mi fece aspettare i 19 anni per attaccarmi il primo dorsale. Sei vittorie nel 1956, 12 nel 1957, 20 nel 1958…. Correvamo insieme, lui era il vecchio, io il giovane”.

Se Bartali e Coppi avevano spaccato l’Italia a metà fra i professionisti, Trapè e Venturelli – Romeo Venturelli detto Meo, da Sassostorno di Lama Mocogno vicino a Pavullo nel Frignano sull’Appennino Modenese – costruirono una rivalità autentica, caratteriale e agonistica, feroce ma anche affettuosa: “La differenza era che, quando si gareggiava tutti e due con la maglia azzurra, di me ci si poteva fidare perché ascoltavo e obbedivo, invece Meo faceva di testa sua e, nella stragrande maggioranza dei casi, per se stesso. Eravamo amici-nemici, il diavolo e l’acquasanta. L’unica volta in cui gareggiammo insieme, l’uno per l’altro, in un Trofeo Baracchi, 120 km a cronometro, battemmo perfino i professionisti”. Un giorno Livio perse la testa e a Meo, che da ragazzo aveva fatto anche il pastore, dette del “pecoraio”. “E Meo non fece una piega”.

Le loro strade si separarono alla fine del 1959: “Blocco olimpico in vista delle Olimpiadi di Roma. Volendo, il blocco si poteva aggirare. Un anno prima avevo rinunciato a una proposta di Learco Guerra: i suoi gregari prendevano 50 mila lire al mese, a me offrì due milioni l’anno, ma Ardelio diceva che per me era ancora presto, cercando invano di arrivare a due milioni e mezzo. Invece Meo rinunciò ai soldi sottobanco della Federazione per prendere quelli della San Pellegrino, con Bartali direttore sportivo e Coppi capitano. Io mi posi come obiettivo due gare olimpiche: il quartetto della 100 km e la prova in linea. Sfiorai la doppietta: oro nel quartetto e argento in linea. Un argento amarissimo. Non mi chieda perché. Ci sto ancora male al solo pensarci”. Fu “una quadrupla truffa”. La prima per un pignone rotto, che lo costrinse a passare dal 14 al 18. La seconda perché Pinella De Grandi, il meccanico della Nazionale, e anche di Coppi, non aveva una ruota adatta per Livio e così Livio decise di tenersi quella. La terza per una borraccia all’ultimo rifornimento, conteneva tè zuccherato e non glucosio e un complesso vitaminico, tant’è che per la rabbia dopo una cinquantina di metri la gettò a terra e rimase senza liquidi e senza energie. La quarta truffa, decisiva, per un consiglio sbagliato nella volata finale a due con il sovietico Viktor Kapitonov, quello del giornalista Lillo Pietropaoli che stava sull’ammiraglia, gli gridò di scattare perché da dietro stavano rientrando, e non era vero, Livio partì lungo e fu saltato a 10 metri dal traguardo.

E il Giro d’Italia? Per Trapè, sei anni da professionista, due vittorie individuali e un campionato italiano a squadre, il Giro fu il capolinea: “L’edizione del 1961, quella del centenario, ventesima e penultima tappa, la Trento-Bormio di 275 km con Pennes, Giovo e Stelvio, era in programma il Gavia, ma la notte aveva nevicato, e Vincenzo Torriani non volle rischiare sulla nostra pelle. Stavo rientrando da solo su Rik Van Looy, Hans Junkermann e Carletto Brugnami, a Merano, ero nella scia delle ammiraglie, quando affrontai una doppia curva, ma non era segnalata. Nella prima curva mi salvai, nella seconda mi schiantai, frattura del femore, e da quel giorno non fui più io”. Nonostante tutto, un secondo posto al Giro di Lombardia del 1962 (“Ma primo sul Muro di Sormano, e senza spinte”), un terzo di tappa al Giro nel 1964 e alla Vuelta nel 1966 (“Anche se gli annali riportano, chissà perché, il quarto”).

La bici, per Trapè da Montefiascone, è infinitamente più di una bici: “A meno che non si dica che la vita è una bici”.

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