(foto Ansa)

Il foglio sportivo

Nedved tutto Juve, sesso e rock n'roll

Marco Gaetani

Ritratto dell’ex vice presidente bianconero, unica figura apicale bianconera prosciolta

Prosciolto. Unica figura apicale della “Juventus che fu” a salvarsi dalla slavina del caso plusvalenze: vicepresidente e con potere di rappresentanza legale, sì, ma estraneo agli addebiti che hanno riguardato i vari Paratici, Cherubini e Arrivabene, per non parlare di Andrea Agnelli. Pavel Nedved esce dal primo filone di giustizia che ha travolto la Juventus come faceva in campo, quando riusciva a spezzare i raddoppi di marcatura facendosi minuscolo pur di passare nell’unico pertugio rimasto a disposizione: spesso finiva a terra, fermato con le cattive. Nei casi migliori, invece, liberava il destro o il sinistro dal limite, vedendo le reti gonfiarsi pur di contenere la potenza che sapeva sprigionare. Era arrivato in Italia un mese dopo averci fatto male, stop di petto e tocco chirurgico sull’uscita bassa di Angelo Peruzzi, con la faccia squadrata, i capelli tagliati corti, le gambe storte di chi nella vita non ha fatto altro che giocare a calcio, un profilo da soldato. Era la partita che più di ogni altra aveva segnato, agli occhi dell’opinione pubblica, il declino di Arrigo Sacchi, che sull’altare del turnover si giocò l’Europeo del 1996 e la reputazione. Iniziò così il rapporto tra Nedved e l’Italia, mondi lontanissimi: da una parte un ragazzo costretto a farsi uomo presto, quinto figlio di Anna e Vaclav, mamma commessa e papà minatore con la passione per il calcio, e dall’altra il miglior campionato del mondo, lustrini e paillettes, una giostra in cui uno così rischiava di perdersi. Ma il suo talento principale era la perseveranza, abbinata a un tiro da lontano al tritolo, pronto a esplodere indifferentemente con entrambi i piedi, abilità da calciatore d’altri tempi e manifesto di abnegazione.

 

Dalla neonata Repubblica Ceca aveva spiccato il volo, prendendosi la gloria a Roma, così diversa dai luoghi in cui era abituato a correre: aveva scelto l’Olgiata, non a caso, per rifugiarsi tra prati e campi da golf. Il sacrificio sopra ogni cosa, la sveglia presto anche in vacanza per macinare chilometri per il perenne stupore della (ora ex) moglie Ivana. E i figli chiamati proprio con i loro nomi, Pavel e Ivana, perché così, “anche quando non ci saremo più, al mondo ci saranno un Pavel e una Ivana che si vorranno bene”. Parole nobili che ora paiono lontanissime, con i maligni che avevano commentato al vetriolo i video usciti nell’agosto del 2022: Nedved che balla con tre donne e poco più tardi cammina alticcio in strada, licenza intollerabile per la rigida etichetta bianconera.

 

Aveva attraversato i periodi chiave dell’ascesa della Lazio cragnottiana, coccolato dall’ultimo Zeman biancoceleste, quindi amato e rigettato da Eriksson: anche nella stagione più complessa, nel 1999, aveva saputo regalarsi un attimo dei suoi. Un colpo di pistola dal limite dell’area al Villa Park di Birmingham, per regalare allo svedese la conferma sulla panchina e a un popolo in visibilio la Coppa delle Coppe, primo trofeo europeo della storia del club. Da quel momento, con Eriksson, era esploso nuovamente l’amore, fino al tricolore. Nedved cuore e acciaio, come gli cantavano dalla Nord biancoceleste, era già juventino dentro, ma non lo sapeva: quella sua tenacia da militare si sposava perfettamente con la filosofia bianconera, il lavoro prima di tutto e la vittoria come traguardo incontrastato da seguire. La fuga verso Torino era stata segnata da discese ardite e risalite: la cessione concordata da Cragnotti con Luciano Moggi, la conversazione in lacrime con il patron e la retromarcia, con la firma sul rinnovo del contratto con la Lazio. E poi la seduzione moggiana, qualche settimana più tardi, con la complicità di fotografi e giornalisti, pronti a immortalarlo al suo arrivo solo teoricamente segreto a Torino per visitare i campi da golf della Mandria, con la regia neanche troppo occulta di Mino Raiola. 

 

Un trasferimento da film per un amore sofferto nei primi mesi: il formidabile esterno di fascia visto a Roma sembrava svanito a Torino. Marcello Lippi decise così di farlo diventare un trequartista. Sembrava un’eresia. Fu una folgorazione. Gli juventini si trovarono a digerire la partenza di Zidane grazie alla seconda vita di Nedved, un perpetuo assalto alla porta a suon di frustate da lontano. I gol del ceco erano una dichiarazione di guerra, trasudavano potenza, rabbia, persino violenza. Umberto Agnelli un giorno telefonò a Raiola: “Mi tolga una curiosità: vado in ufficio alle otto e lo vedo che corre. Torno a casa alle sette di sera ed è ancora lì che corre. Ma si allena anche con la Juventus?”. Era l’anno del cinque maggio, giorno esistito soltanto perché Nedved nel girone di ritorno si era rivelato una furia e aveva tenuto a galla la Juve quando l’Inter sembrava di un altro pianeta, fino all’epilogo. C’era quasi pudore nell’ammettere che fosse diventato uno dei migliori calciatori del mondo: non rubava l’occhio, non aveva il colpo a effetto. Era stato, semplicemente, un passaggio ineluttabile. Chi ha vissuto con Nedved dalla sua parte non ha potuto non amarlo, non farsi sedurre da questa devozione cieca; chi lo ha trovato da avversario, invece, lo ha detestato. Perché Nedved era inarrestabile e cattivo, aggressivo, incapace di accettare la sconfitta.

 

Nel 2003 aveva giocato una Champions League da califfo, poi aveva preso un cartellino inutile contro il Real Madrid, saltando la finale delle finali, quella poi persa contro il Milan: diventerà la partita del “se c’era Nedved”, del rimpianto da una parte e della beffa inflitta ai rivali di sempre dall’altra. Per evitare un altro “caso Nedved” si arriverà addirittura a modificare il regolamento. A dicembre di quell’anno aveva vinto il Pallone d’Oro: già da tempo, attorno al volto squadrato, i capelli avevano preso forma tutt’altro che militare, un casco biondo a nascondere la fronte. Qualche anno dopo aveva accettato anche di scendere in B, dopo il terremoto di Calciopoli, per poi ritirarsi a 37 anni, nell’estate 2009, negandosi un’ultima corsa altrove. Lo voleva l’Inter di José Mourinho, destinata al triplete. Non erano servite le telefonate del portoghese e di Moratti: “Non avrei potuto indossare un’altra maglia”. L’ultimo atto da calciatore solidificò il mito del Nedved arcijuventino, passato dal campo alla scrivania per attraversare, prima da componente del cda e poi da vicepresidente, uno dei cicli più gloriosi della storia bianconera. È finito male, con un tonfo assordante del quale, almeno stando alle indiscrezioni, non abbiamo ancora appreso con esattezza tutte le sfumature sonore. 

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