ciclismo
Fare i conti con il Giro d'Italia
Non è stata una corsa noiosa, nemmeno una delusione. Il problema sono le aspettative e che il ciclismo debba essere sempre ciò che è stato il Tour de France 2022
Avolte tocca prendersi un po’ di tempo per fare i conti giusti con quanto è accaduto. A farli in corso d’opera si corre sempre il rischio di avere una visione distorta. Soprattutto con il Giro d’Italia.
Mettendo in fila quanto è accaduto si contano: una cronoscalata che ha riscritto la storia del Giro, quella del Monte Lussari; un tappone che a tratti c’è parsa poter essere magnifico e che poi lo è stato un po’ meno, ma che ha messo il tarlo del dubbio che la corsa avesse ancora pagine da scrivere: quello delle Tre Cime di Lavaredo; due tappe alpine dal finale appassionante: quella del Monte Bondone e quella della Val di Zoldo; una tappa caratterizzata da un numero mica da poco, quello di Ben Healy verso Fossombrone; una nella quale sia la fuga di giornata, sia i primi della classifica se le sono date: quella di Bergamo; tre volate stupende: a Salerno, Tortona e Caorle, due su tre segnate da recuperi strepitosi di Jonathan Milan; una quasi impresa mancata: quella di Alessandro De Marchi e Simon Clarke a Napoli; quattro tappe nelle quali la fuga si è sbizzarrita a rendere appassionante la corsa: quelle di Viareggio, Rivoli, Crans Montana e Cassano Magnago; una cronometro incertissima che ci ha tenuti sino all’ultimo secondo inchiodati davanti allo schermo perché era impossibile capire il risultato; una cronometro, quella di apertura, dove si è visto uno spettacolo di precisione ciclistica: quella di Remco Evenepoel. E qualche battuta a vuoto, tappe che ci immaginavamo potessero essere meglio, ma che invece hanno concesso uno spettacolo inferiore alle aspettative.
E’ questo il problema: le aspettative. Vediamo i profili altimetrici delle tappe e ci immaginiamo scatti e controscatti, azioni da uomosoloalcomando anche se le maglie non sono più bianco-celesti e i loro nomi non sono Fausto Coppi. Ci fregano le aspettative. Si fa sempre a cazzotti a mettere a confronto la realtà con l’immaginazione. Perché i corridori non sono immaginari, hanno cuore e gambe e polmoni come noi, anche se il cuore batte meglio, le gambe sono più forti, i polmoni più ampi. Tocca anche a loro fare i conti con le energie e se il meglio viene lasciato sempre alla fine va da sé che chi ha come obiettivo la maglia rosa cerca di tenersi il maggior numero di energie per il finale. Ci fregano le aspettative anche perché, in fondo, ci siamo convinti che tutti i ciclisti siano un po’ Pogacar e Vingegaard o van der Poel e van Aert e che il Tour de France del 2022 si possa replicare in eterno. Non è così. Non che gli altri, quelli che c’erano al Giro, siano scarsi, semplicemente non sono così e le condizioni che si erano create in Francia non si sono riprodotte. Ce l’eravamo goduta a luglio. Va detto che non è andata così male nemmeno questo maggio, tutto sommato. Perché di giornate che ricorderemo ce ne saranno, nonostante tutto. Nonostante pioggia a fiumi, freddo e Covid. A partire dalla penultima, quando Roglic ha ribaltato un Giro che poteva vincere Thomas, che lo sloveno ha rischiato di non vincere per un salto di catena, ma che ha vinto comunque. Lo ricorderemo per i battibecchi di Pinot, le volate di Milan, le avventure di Gee e Healy. E tra qualche anno diremo: li ho visti sbocciare a quel Giro.
Ci ricorderemo soprattutto dei luoghi che il Giro ha attraversato, perché questo Giro ci ha anche permesso di avere il tempo di osservare dove il Giro si è mosso, il solito meraviglioso viaggio in pezzi di Italia che troppo spesso ignoravamo. E quello che ora si chiama noia, ma che noia non è, è il grande dono del ciclismo: darci la possibilità di scoprire ciò che non sapevamo, fornirci lo spunto per incuriosirci per qualcosa.