Il Foglio sportivo
“Il Toro resta dentro per sempre”. Intervista a Zaccarelli
Gli inizi a Catania, l'arrivo al Torino, i prestiti, i consigli di Carlo Parola, il gol al Mondiale e lo scudetto in granata: “Il segreto? Radice ci diede da mangiare nel modo giusto”
"Da bambino prendevo a calci qualsiasi cosa mi capitasse a tiro. Con il pallone ho cominciato nello Junior Ancona, la squadra del quartiere Massimiano della città in cui sono nato. Il campo era sterrato. Mi hanno messo presto a giocare con quelli più grandi. Ero filiforme e bravino con tutti e due i piedi e mi hanno schierato ala sinistra. Allora non avevano ancora inventato gli esterni e i numeri sulle maglie rispecchiavano fedelmente il ruolo. Con l’11 cucito sulle spalle mi sono tolto le prime soddisfazioni e qualche gol, quando giocavo con i più piccoli, l’ho pure segnato”.
Questa è la storia di uno di loro. Per l’esattezza, di Renato Zaccarelli, leggenda vivente del più forte Torino di sempre, dopo quello, epico, tragicamente scomparso sulla collina di Superga. La più forte mezzala del calcio completo, come lo ha definito Gian Paolo Ormezzano.
Quindici anni tutti di fila con addosso la maglia che sarebbe diventata del cuore, uno scudetto e altri due persi, poco prima che calasse il sipario, 413 presenze, 21 gol, tra cui due, immortali, segnati contro la Juventus all’ultimo soffio.
“Mio padre guidava gli autobus, ma, quando il fisico non glielo ha più permesso, l’hanno messo a strappare i biglietti. Era l’unico in famiglia a non fare il tifo per l’Inter. A lui era sempre piaciuto stare dalla parte dei deboli e aveva scelto il Mantova. A 16 anni metto tutto quello che riesco in valigia e mi trasferisco a Catania. Il distacco non è semplice. Ero il più piccolo di tre fratelli maschi. Mia madre non era affatto contenta, ma il calcio a me sembrava di averlo nel sangue. Mio padre mi ha accompagnato in treno sino alla meta. Ricordo ancora le sue parole: ‘Vengo a vedere come ti sistemano, ma devi andare tutti i giorni a scuola. Altrimenti, torni subito a casa’. Era la sua unica condizione. Al campo ho trovato Todo Calvanese, un ex calciatore di origine argentina, che a Catania aveva aperto un negozio di articoli sportivi e, contemporaneamente, faceva l’allenatore del settore giovanile. A lui devo i miei primi vistosi miglioramenti. Gli allenamenti erano farciti di estenuanti lezioni di tecnica individuale, evidentemente proficue. Giocavo nella Primavera e alla prima squadra ero solo aggregato. Due partite in Serie B peraltro sono riuscito a giocarle, prima di andar via. Dopo un anno pieno, in tutti i sensi, trascorso in Sicilia, mi trasferisco al Torino dove resto due anni nel settore giovanile, vincendo uno scudetto Primavera”.
E, se non sbaglio fa in tempo a esordire con la maglia dei grandi a Budapest contro l’ Mtk, in Mitropa Cup. È una prima volta tempestosa, al di là della sconfitta, maturata nei tempi supplementari. Era il 16 dicembre 1970. Lei non aveva compiuto vent’anni…
“Una reazione di un mio compagno di squadra a una provocazione genera un pandemonio. Invadono il campo e noi siamo costretti a rimanere negli spogliatoi, prima di essere scortati sino all’aeroporto dalla polizia ungherese, che indossava, roba di altri tempi, cappotti neri di pelle lunghi sino alle caviglie”.
Poi, gironzola per farsi, come si diceva a quei tempi, le ossa…
“Il Torino mi cede in prestito al Novara, allenato da Carlo Parola, che ha portato avanti il mio percorso di crescita, insegnandomi, in particolare, a calciare al volo. Vederlo raccogliere i cross, che gli facevamo noi giocatori, tirare dal limite dell’area e centrare ogni volta la porta, era uno spettacolo allo stato puro. Io, invece, prima di imparare, calciavo al volo, avendo in mente solo la potenza del tiro e il pallone faceva migliaia di piroette, prima di andarsene per conto suo. Lui mi ha spiegato per due anni di seguito, senza stancarsi mai, che il pallone arriva già forte, quando è il momento di impattarlo e bisogna solo badare alla precisione. Credo di poter dire, a posteriori, di essere stato un buon allievo. Forse il migliore”.
Da Novara a Verona in Serie A e poi finalmente, nel 1974, torna alla base. A Torino resterà per 15 anni, diventandone una bandiera. L’esordio al Comunale è fortunatamente più tranquillo di quello burrascoso in Mitropa Cup. Vittoria per 2-0 contro il Cesena e nessuno strascico a posteriori…
“Esordire in casa con la maglia granata è stata un’emozione incredibile. Io non ero ancora un tifoso del Toro, ma già sentivo il peso di una maglia, che era leggenda. La tragedia di Superga era ancora fresca. Noi ci allenavamo al Filadelfia e le porte di accesso erano sempre aperte. Eravamo a contatto con i tifosi e ne sentivamo tutto il calore. La maggior parte di loro aveva vissuto da vicino l’epopea della squadra irripetibile, che aveva giocato in quello stesso stadio, e aleggiava sempre nell’aria il suo ricordo e insieme il paragone, a priori impietoso, con noi, suoi indegni eredi. Non era facile reggere il peso di quell’impari raffronto”.
A Torino nel 1976 arriva il settimo scudetto, il primo e l’unico dopo Superga. Oltre a lei ci sono Pulici, Claudio Sala, Pecci e Graziani. Qual era la vera forza di quella squadra?
“Non siamo partiti per vincere il campionato. Era andato via Edmondo Fabbri e gli era subentrato Gigi Radice. Credo che sia stato lui l’artefice massimo di quell’impresa. Ci ha dato, mi consenta l’espressione impropria, da mangiare nel modo giusto. Arrivavamo da allenamenti per così dire tradizionali e ci siamo, quasi all’improvviso, trovati di fronte a una vera propria rivoluzione metodologica, basata sull’intensità e sull’aggressività. C’è voluto tempo per assorbire la novità. All’inizio abbiamo fatto fatica. È stato un percorso via via più entusiasmante e in quella escalation è stata determinante il cambio di posizione di Claudio Sala, spostato sull’esterno, sia di sinistra che di destra. Le opportunità per le due punte Graziani e Pulici, innescate da Claudio Sala in quella nuova posizione, sono state infinite, incredibili e grandiose. Io di gol in quell’anno ne ho realizzati cinque, compreso uno dei due importantissimi, con cui abbiamo sbancato San Siro contro il Milan”.
A proposito di gol, lei ne ha realizzati due in extremis contro la Juventus, che sono entrati nella storia gloriosa dei derby della Mole…
“Il primo è quello della vittoria per 3-2, dopo una rimonta pazzesca. Un rimpallo dentro l’area di rigore e la mia stoccata è vincente. L’altro è quello con cui pareggiamo un derby che sembrava perso. Sono quei gol, che non riesci neppure spiegarti. C’è un calcio di punizione. Il tiro è diretto in porta e io mi butto d’istinto in avanti, nello stesso istante in cui parte il pallone, oltre i difensori e ogni altro ostacolo, e arrivo per primo a colpirlo, dopo la respinta del portiere”.
Un gol rimasto celebre è anche quello realizzato contro la Francia di Platini ai mondiali del 1978…
“Era la partita d’esordio al Mar del Plata. Passano 38 secondi e, prima che riuscissimo a capire dove eravamo e con ancora nelle orecchie i fischi dopo lo 0-0 contro la Jugoslavia nell’ultima amichevole premondiale all’Olimpico di Roma, la Francia passa in vantaggio con un gol di Lacombe. Il titolare è Antognoni. Io siedo in panchina. Pareggia Paolo Rossi e nel secondo tempo Enzo Bearzot mi fa entrare. Poco dopo, su quella che ora chiamano ripartenza e io ancora contropiede, dalla destra arriva rasoterra un pallone, scodellato in area da Claudio Gentile. Io non ci penso neppure un attimo e lo calcio d’istinto, incrociandolo sino all’angolo lontano. È il gol della vittoria e anche quello che, più di tutti gli altri, mi è rimasto dentro”.
Quale è il giocatore a cui è rimasto più affezionato e quale il più forte al cui fianco ha giocato?
“Affezionato è una parola grossa perché, quando le luci della ribalta si spengono, tutti si spostano di qua e di là e ci si perde di vista. Io posso dirle che le qualità che possedeva Paolino Pulici non le ho mai riviste in nessuno. Riusciva a fare gol di destro, di sinistro, in acrobazia, di testa e in tutti i modi immaginabili e non. Se penso a un goleador, penso a Pulici e a nessun altro”.
Il calcio è cambiato?
“Il calcio, è inutile nasconderlo, è cambiato molto. È cambiato nell’alimentazione, nei metodi di preparazione, nella medicina, nella costruzione, in senso buono, del fisico dei calciatori. La parte economica ha assunto dimensioni non paragonabili con quelle dei tempi in cui giocavo io. I soldi si sono moltiplicati a dismisura e servono, purtroppo, anche a determinare la classifica dei campionati”.
Le luci della ribalta si sono spente, ma lei non si è spostato da nessuna altra parte. È rimasto a Torino…
“Mia moglie è di Torino. I miei figli sono nati a Torino. Io sono, è il caso di dirlo, torinese d’adozione e con il tempo ho imparato ad amare, questa città bellissima, che mi ha dato tutto”.
A Torino c’è anche la Juventus…
“La rivalità con la Juventus la senti sulla pelle e ti resta per sempre. Con il tempo si è, come tutto, affievolita, ma, se penso agli anni dello scudetto e dei secondi posti, rimane l’orgoglio di essere stati una grande avversaria della Juve e di tutte le altre squadre d’Italia”.
Quale è la sua vita di ora?
“Mi godo la mia meravigliosa famiglia. Con Loredana siamo insieme da quasi mezzo secolo e non può essere un caso. È il grande amore della mia vita. Abbiamo due figli Jessica ed Edoardo e una nipotina, Chiara, che ha già 14 anni. Tutto bello. Tutto perfetto. A parte quella J di Juventus, con cui inizia il nome di mia figlia”.
Il giorno dello scudetto le fa ancora compagnia?
“Di quel giorno ricordo tutto. Anche il rammarico per un pareggio, che ci dava la sicurezza matematica del titolo di campioni d’Italia, ma ci impediva di chiudere il campionato con l’incredibile record dell’en plein delle vittorie casalinghe. L’immagine, che conservo, più di tutte le altre, nel cuore, è quella di quando grido tutto il mio entusiasmo al microfono di un malcapitato giornalista della Rai. Urlavo come un assatanato, come se temessi che non mi sentissero. Gridavo, perché era una felicità che non avevo provato mai. E che non avrei mai più provato”.