Il rugby vincente di Berlusconi e la fine dell'Amatori Milano
Il Cav. comprò, ingaggiò campioni, vinse, poi lasciò. Non solo la società, ma anche uno sport diverso. Una corsa all'oro che esaurì la vena minerale dell'ovale meneghino
Ghe pensi mi. E s’impadronì della più antica e blasonata squadra di Milano. Ghe pensi mi. E tesserò alcuni dei migliori giocatori italiani. Ghe pensi mi. E ingaggiò alcuni dei migliori giocatori internazionali. Ghe pensi mi. E in una decina di anni conquistò quattro scudetti. Ghe pensi mi. E quando si convinse che non ne valesse la pena, l’investimento, i danèe, mollò tutto. Ghe pensi mi. E da allora, nell’Italia del rugby, nulla sarebbe mai più stato come prima.
Berlusconi e il rugby. L’ultima disciplina a entrare nel suo progetto di polisportiva, l’ultima a uscirne – a pezzi -, calcio escluso. L’inizio alla fine degli anni Ottanta. Sponsor Mediolanum, maglia bianca con fasce orizzontali rossa e nera, ma campo, sempre quello, il Giuriati vecchio, vecchio rispetto a quello nuovo vicino ai binari della stazione di Lambrate, vecchio come tribuna, come pista (di atletica leggera), come terreno, erboso solo in agosto, poi ruminato da formazioni, tacchetti, allenamenti, partite, con una zona che con le prime piogge di settembre diventava fangosa e con quelle invernali paludosa almeno fino a maggio inoltrato, vecchio come spogliatoi dotati sì di docce, ma rapidamente prive di acqua calda.
Il rugby non era (e non è), come pensava Berlusconi, la somma di quindici giocatori (in campo), più due (in panchina, a quel tempo), più uno (la riserva viaggiante, in tribuna, a quel tempo), più altri (dirottati nella formazione iscritta al torneo delle riserve, a quel tempo). Il rugby era (ed è) quindici uomini (e quindici donne, adesso) stretti e uniti, coesi e coerenti, legati e mischiati, sostenibili e sostenuti, quindici insieme sul campo più sette in panchina più altri in tribuna. Una squadra. Lo sport di squadra. Che non si misura sul più forte, ma sul più debole. Che gioca sulla tecnica quanto sui sentimenti, sulla strategia quanto sullo spirito, sulla forza di gambe e braccia quanto su quella dell’animo, che è sempre pronto e mutuo soccorso. Quattordici uomini (e donne) che spingono, saltano, lottano, corrono, si aiutano per dare al quindicesimo un metro, mezzo metro, una spanna o uno spiffero di vantaggio. E poi vedere l’effetto che fa.
Infatti. I primi due anni l’armata Berlusconi si fermò alle semifinali. La situazione ricordava una delle storie di Angelo Massimino, presidente del Catania calcio. Che cosa manca a questa squadra?, chiedeva il boss dopo una costosa campagna acquisti. L’amalgama, rispondeva il tecnico. E allora compriamolo!, tuonava Massimino, pensando che si trattasse (Lamalgama…) di un fantasista sudamericano. Finché, a forza di acquisti, arrivò il primo scudetto. Non per il Catania calcio, ma per l’antico Amatori rugby, nel campionato 1990-1991, il quindicesimo titolo italiano della sua storia a 45 anni di distanza dal precedente, 37-18 sul Benetton di Treviso al Tardini di Parma. Remo Musumeci, sull’Unità, avrebbe scritto di quella che “sembrava una partita di scacchi”, “con il Benetton fino a quel momento aggrappato al punteggio (18-18)”, poi “sparito dal campo provato da una terribile battaglia di mischie”, nonché di “una di quelle cose che non si vedono quasi mai”, l’australiano David Campese del Mediolanum che “ha raccolto una palla” e “ha corso a slalom, in un corridoio largo non più di 50 centimetri, per 70 metri”. Quel Campese, un fenomeno. Per una decina di anni, doppie stagioni, in Australia e in Italia, prima nel Petrarca di Padova, poi a Milano. E il suo celebre passo dell’oca, una finta irresistibile e una corsa implaccabile.
Fra gli spettatori di quella prima finale scudettata c’era anche Fabio Capello, che Berlusconi aveva voluto a capo della polisportiva. Sempre a Musumeci l’uomo-Fininvest “ha raccontato di aver vissuto un’esperienza che lo ha molto arricchito e che gli sarà assai utile nell’impegno di allenatore del Milan”, “Nel tumulto del primo tempo mi son detto ‘adesso l’arbitro, per placare gli animi, ne caccia via un paio per parte’. Invece non è accaduto niente. Sarebbe bello se nel calcio si vedessero meno esibizioni plateali dopo i gol e qualche rudezza in più. Ho capito che nel rugby si resta amici anche dopo qualche cazzotto”.
Il dominio dell’armata Berlusconi continuò con altri quattro finali (sempre contro il Benetton) e quattro scudetti, ma anche con una quinta finale (contro L’Aquila) e una sconfitta. E questa sconfitta fu storica: 23 aprile 1994, al Plebiscito di Padova. Davide (L’Aquila) contro Golia (il Milan). La squadra di una città, di una civiltà, di una cultura ovale (L’Aquila) contro la squadra di un progetto, di un Fininvestimento, di un’industria a tutto tondo (il Milan). Il rugby ignorante delle contrade (L’Aquila) contro quello sberluccicante dei condomini e dei residence (il Milan). I dilettanti (L’Aquila) contro i professionisti (il Milan, anche se ufficialmente il professionismo sarebbe stato ammesso solo un anno dopo). E la tigna ebbe ragione sull’eleganza. Finale: 23-14 per i neroverdi aquilani. E anche per tutti quelli che sostenevano l’idea di un gioco di squadra, villaggio, paese, provincia, comunità. Dove è indispensabile avere fame, voglia, fuoco. Dentro.
Alla fine del campionato 1997-1998 Berlusconi tolse il Milan all’Amatori. E l’Amatori, inguaiato anche da indagini fiscali, prima si unì al Calvisano, poi si sciolse. Perché in quei dieci anni si era investito solo sulla prima squadra e non sul settore giovanile, sugli scudetti e non su allenatori e campi, sul vertice e non sulla base. Certo, chi fu coinvolto nella formazione vincente racconta con nostalgia l’avventura e rivendica con orgoglio i successi. Diego Dominguez, all’Ansa, ha dichiarato che “Berlusconi ha inciso tantissimo sul rugby italiano, vincendo sempre e poi con tante altre cose”, spiegato che “andavamo sempre in televisione, avevamo sempre auto diverse o a fare foto con la gente” e ricordato che “andai in tv a una trasmissione del mattino, c’erano anche lui, Berlusconi, e Bruno Vespa”. Ma quegli anni di professionismo spettacolare e – per dirla alla Dominguez – televisivo non aveva portato erba al Giuriati né vivaio ai milanesi, che anzi si erano radicati ancora di più alle altre società locali. Era stata una corsa all’oro. E quando il filone si esaurì, rimase il fango di quella dannata pozzanghera nel mezzo del vecchio Giuriati.