Il Cav. dello sport
Quando Berlusconi provò a trasformare Milano nella capitale dello sport
I successi nel calcio con il Milan e poi quelli nel rugby, nella pallavolo, nel baseball e nell'hockey su ghiaccio sempre in rossonero e sempre griffati Mediolanum. La Polisportiva Milan è stata una pagina veloce e vincente, stoppata sotto canestro. Come l'idea di far correre Bugno e Chiappucci nella stessa squadra
Erano gli inizi degli anni Novanta quando coi colori rossoneri la Milano sportiva vinceva un po' ovunque. Nel calcio, con il Milan, nel rugby, nella pallavolo, nel baseball, persino nell'hockey su ghiaccio. La Polisportiva Milan, fondata nel 1989 da Silvio Berlusconi, morto lunedì a 86 anni, aveva l'ambizione di trasformare il capoluogo lombardo nella capitale italiana dello sport. Ci riuscì. Durò poco però. Cinque anni, il tempo dei grandi successi italiani, europei, mondiali, con il Milan, che continuarono anche dopo, di due coppe Italia e due coppe delle Coppe nel baseball, tre scudetti nell'hockey, quattro (e una Coppa Italia nel rugby), una Coppa delle Coppe e due Coppe del mondo per club nella pallavolo maschile. Alla polisportiva mancava un tassello: l'Olimpia Milano del basket, la terza squadra di Milano, l'unica che univa tutto il tifo della città, quella che la famiglia Gabetti non volle mai cedergli. Senza l'Olimpia, il progetto berlusconiano non aveva senso d'esistere. Senza l'Olimpia non c'era possibilità di riunire sotto un'unica bandiera la Milano vincente. Senza l'Olimpia non tornavano i conti. Quelli sportivi, soprattutto quelli economici: pallavolo, hockey e baseball non facevano battere il cuore ai milanesi, il rugby già di più, quantomeno la tradizione era lunga, vincente, affascinante, soprattutto uno sgarbo ai cugini nerazzurri, visto che l'Amatori Milano era nata nel 1927 da una costola dell'Inter.
La breve stagione della Milano vincente della Fininvest griffata Mediolanum finì nel 1994. La polisportiva fu sciolta, solo il rugby durò qualche anno in più. Nel 1995 Silvio Berlusconi si disse rammaricato di non aver completato la sua “missione di dare a Milano il meglio in ogni sport”, sebbene, “il meglio è arrivato a San Siro e nel modo più spettacolare possibile”.
Fu un momento sportivo unico. A Milano tra il 1989 e il 1994 c'era tanto del meglio che lo sport italiano aveva da offrire. Sottorete c'erano Franco Bertoli, Bob Ctvrtlik, Andrea Lucchetta, Jeff Stork, Andrea Zorzi; sul ghiaccio si muovano Lucio Topatigh, il più forte giocatore italiano di sempre, Jari Kurri, Sandy Pellegrino e Michael De Angelis; con l'ovale in mano Massimo Cutitta, Diego Dominguez, Massimo Giovanelli, Franco Properzi e il più forte di tutti: David Campese. Un momento talmente particolare da far dire a Enzo Jannacci che 'l'era davvero un gran Milàn, ma gran davvero, enorme".
Un momento sportivo unico interrotto da una stoppata sottocanestro. Un città che sognò in grande ovunque, vinse ovunque, poi si ritrovò abbandonata, macerie e traslochi. Il rugby a Calvisano, l'hockey a Courmayeur, la pallavolo in B2 e poi sparita.
Poteva durare più a lungo, poteva andare ancora meglio, poteva allargarsi ancora. Senz'altro poteva essere ancor più veloce. Poteva, non è scuccesso.
Era il 1989 quando in Fininvest girò l'idea di investire nella Formula 1. La famiglia Benetton aveva un suo team, conquistava podi e vittorie, perché non fare altrettanto? Era un bella forma di pubblicità la Formula 1, la vedevano un sacco di persone all'epoca. Berlusconi declinò subito. Troppi investimenti e troppo bassa la possibilità di essere subito competitivi.
Ci mise qualche tempo in più, un anno dopo, a dire no all'altra grande idea sportiva partorita in azienda. Dietro a tutto questo però non c'era qualche esperto di marketing e comunicazione, c'era una persona che il Cav, aveva conosciuto nemmeno dieci anni prima, ma di cui si fidava ciecamente e che apprezzava per lungimiranza di vedute, buon gusto e soprattutto buon senso: Ennio Doris. Il futuro presidente di banca Mediolanum era un gran appassionato di bicicletta, di ciclismo parlava con passione e competenza e ogni tanto ne parlava pure con Berlusconi che di bici ne capiva poco o niente e di ciclismo ancor meno, sport lontano, lontanissimo dai suoi interessi. Però quella volta stette ad ascoltare, perché il piano era interessante, ambizioso, a suo modo geniale. Perché non riunire in un'unica squadra Gianni Bugno e Claudio Chiappucci? Una grande squadra ciclistica con i due campioni di allora sarebbe stata un'enorme occasione di marketing per l'azienda. Poteva esserlo, non è stato.
Giorgio Bocca raccontò che per qualche giorno da Arcore partirono chiamate a più di un direttore sportivo e che si ragionò addirittura sul colore della maglia: bianca con strisce rossonere? oppure tutto rossonero?
Se ne fece niente. Silvio Berlusconi disse che non il ciclismo non era cosa da Milan. Nessun corridore fu contattato, nessuna bici e maglia scelta. Bugno e Chiappucci non corsero mai per la stessa squadra.
Eppure Silvio Berlusconi vinse anche nel ciclismo. E suo malgrado. Fu tra il 1996 e il 1998, fu grazie, o forse a causa, dell’Amore & Vita di Ivano Fanini, che nel 1996 alla Milano-Sanremo, ebbe la trovata di mettere ForzArcore, con i colori di Forza Italia, sulla maglia della sua squadra.
Il Cav. lo scoprì a cose fatte, la trovò un’opportunità, contribuì a finanziare la squadra per due anni e mezzo. D’altra parte aveva simpatia per l’esuberanza di Ivano Fanini, fare una squadra con un messaggio antiabortista, portare le biciclette in Vaticano, puntare su giovani sconosciuti e corridori da molte parti del mondo, dare prime e seconde occasioni, parlare sempre per dire la propria, poco curanti di ciò che sta attorno.
Vinse suo malgrado al Giro, in Portogallo, Francia, Polonia, Svizzera, addirittura in Cile, Marocco e Sud Africa. Erano i primi anni di vera globalizzazione del ciclismo. Il rossonero delle maglie dell’Amore & Vita lo si vedeva da lontano. E non tanto per i colori, per l’orientamento delle strisce. Quelle verticali si erano viste poche volte in gruppo. Arrivarono in modo improvvisato e un po’ per piaggeria, poi per fortuna scomparvero. A suo modo, e suo malgrado, fu pure quella una mezza rivoluzione.
E anche quella volta senza Bugno e Chiappucci nella stessa squadra. E forse è andata bene così.