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ciclismo

È morto Gino Mader

Giovanni Battistuzzi

Il corridore svizzero era caduto giovedì in un burrone nella discesa dell'Abulapass al Giro di Svizzera. L'impossibilità di essere pronti a certe notizie e quel filo che lega noi appassionati ai corridori

La sensazione è quella di un pugno alla bocca dello stomaco. Manca l'ossigeno, stordimento, un dolore secco. Gino Mäder è morto. È morto in bicicletta, caduto in un burrone ieri al Giro di Svizzera, lungo la discesa che dall'Abulapass porta a La Punt. Era stato trovato sdraiato nel letto di un torrente privo di sensi, era stato rianimato e portato in eliambulanza all'ospedale di Coira. Hanno provato a salvargli la vita, non ce l'hanno fatta.

Era già successo che di corridori morissero in corsa, fortunatamente meno di un tempo. Si crede che il pregresso, ciò che abbiamo già vissuto, possa essere d'aiuto ad accettare i fatti della vita, a razionalizzare meglio gli eventi. D'altra parte in discesa si va forte, basta un attimo di distrazione, essere più stanchi di quello che si crede, rischiare un minimo in più, oppure incocciare in un imprevisto e bum, cadere può essere doloroso, ci si può fare male. E quando si pedala non ci si pensa mai davvero a questo, ci spinge un inesorabile ottimismo.

Serve a nulla ciò che è passato. Non ci rende pronti. L'ossigeno manca sempre, lo stordimento è totalitario, il dolore reale. Risuonano solo due parole: è morto. Il resto non conta.

La bicicletta ha la capacità di renderci uguali, di vivere uno stato di totale empatia con i corridori. Quando li vediamo correre sappiamo cosa provano, percepiamo la loro fatica, è la stessa che proviamo noi quando ci muoviamo in bici nei luoghi, a volte gli stessi, nei quali si sono mossi loro, solo più lentamente e senza l'assillo di una vittoria, di una classifica, di un cronometro, di un risultato.

A volte i corridori possono starci più o meno simpatici, possono essere più o meno vicini al nostro ideale di ciclista, ne abbiamo sempre uno e non ci si può fare niente. Gino Mäder era di quelli che era più semplice voler bene, per cui provare una simpatia. Aveva quel sorriso magnetico, il modo di fare educato e uno sguardo sempre in bilico tra gioia e malinconia.

È difficile che si tifi contro qualcuno nel ciclismo, le maglie e i colori non contano, non esistono, cambiano al cambiare degli sponsor. È difficile molte volte farne anche una questione di nazionalità nel ciclismo, un tempo c'era, ora sempre meno. Lo si vede a bordo strada, negli applausi e nei daidaidai rivolti a tutti. Lo si era visto al termine della settima tappa della Parigi-Nizza del 2021, quando c'erano centinaia e centinaia di persone che provavano a spingere a furia di allez Gino ­verso il traguardo alla Colmiane. Era andato in fuga, aveva staccato tutti, ma Primoz Roglic lo inseguiva in maglia gialla, scattato come un razzo poche centinaia di metri prima. Si arrabbiò parecchio Gino appena dopo l'arrivo con lo sloveno. Lo perdonò subito. Doveva andare così. L'indomani però Roglic cadde e a chi gli chiese se fosse stato il karma, Mäder rispose che quello che era successo il giorno prima stava nelle dinamiche di corsa e che Roglic non meritava di perdere la Parigi-Nizza all'ultima tappa per una caduta. Non sorrideva quel giorno, aveva l'espressione malinconica di chi si sentiva in colpa per aver solo pensato qualcosa di brutto.

Gino Mäder quando lo si vedeva prima delle corse era sempre concentrato, ma trovava sempre il modo di concedere un sorriso. Una volta, prima di una tappa del Giro d'Italia, era con Mikel Landa, suo compagno di squadra e capitano. Un bambino gli si avvicinò e gli porse un quadernino per l'autografo, lui lo stava passando a Landa per farlo autografare, quando il bambino lo fermò e gli disse che voleva il suo, perché a lui piaceva Gino Mäder. Gino arrossì, poi rise, firmò e si fece una foto con il bimbo. Disse al bimbo che gli aveva fatto un regalo, che ora anche lui aveva un tifoso italiano.

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