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Il Foglio sportivo - dal campo alla scrivania

“Ho battuto panico e depressione”. Parla Bruno Cirillo

Alessandro Rimi

La vita dopo il pallone: “Voglio essere un valore aggiunto per i giocatori”. Il colpo subito da Materazzi? "Dispiace che oggi mi riconoscano associandomi a quel momento perché io sono stato tanto altro". dice l'ex difensore

Smettere di giocare dopo vent’anni è tosta, ma prima o poi quel giorno arriva per tutti. In un attimo, il sipario viene giù. I calciatori che a un certo punto smettono di esserlo però in quel mondo vogliono rimanerci. Così li ritrovi in panchina, li riscopri dirigenti, li riascolti davanti a una telecamera. Bruno Cirillo quando disse basta aveva 38 anni, oggi sono già 46. Il tempo scorre veloce, come quando giocava. Un bel centrale che si adattava anche in fascia. Nel 2004, da una partita a San Siro contro l’Inter, uscì con labbra e zigomo lesionati. Un brutto gesto di Materazzi, “denunciato” dal diretto interessato in diretta televisiva. “Anche se dispiace che oggi mi riconoscano associandomi a quel momento perché io sono stato tanto altro – dice Bruno Cirillo – Non certo un fenomeno, ma comunque un protagonista. Credo di aver fatto un bellissimo percorso e ne vado orgoglioso”.

 

E certo che Cirillo fu tanto altro. Non può essere un caso se in Serie A debutti contro la Juventus di Del Piero e Zidane e segni il primo gol in trasferta alla Roma di Capello. La Reggina è la palestra, l’Inter la stella polare. “Mi volle Lippi – ricorda Cirillo – Quella lì era una squadra gigantesca. Laurent Blanc, ogni giorno, a fine allenamento, mi chiamava per fare tecnica. Provavamo a prendere le traverse, il vincitore avrebbe poi pagato il caffè all’altro. E poi c’era Ronaldo, il Fenomeno, che quando ti puntava era ingiocabile. Uno spettacolo. Un giorno gli dissi: Ronie, facciamo una foto al volo? Mi guardò e rispose: perché me la chiedi? Era tutta lì, l’umiltà di uno dei migliori della storia”.

L’inizio del giro del mondo in 5.000 giorni. Da Lecce a Siena, dall’AEK – per giocare la Champions nel girone del Milan – al PAOK di Salonicco. Una nuotata in Andalusia e una sbracciata a Cipro. Quindi le ultime curve in Francia (Metz) e in India nel Pune City di Trezeguet, per tagliare il traguardo di nuovo a Reggio Calabria. Un cerchio che si chiude. E ora che si fa? “Presi il patentino base ma capii presto di non poter fare l’allenatore – ammette Cirillo – Quella vocazione non ce l’ho mai avuta. Gattuso, ad esempio, è uno di quelli che ce l’ha. Carisma, idee, quel sangue che aveva anche in campo. Pirlo uguale, a 21 anni era già chiaro che fosse un leader. Un allenatore top deve saper gestire venticinque persone e non è facile. Al di là dei moduli devi farti voler bene, avere rispetto per tutti, far capire che bisogna dare l’anima”.

 

Il futuro perciò non è in panchina, ma nelle tribune invece sì. Cirillo va a caccia del talento ancor prima che gli altri se ne accorgano. Roba da scouter, da esploratore che danza sulle sponde del mondo. “Negli ultimi tre anni della mia carriera da calciatore - spiega l’ex difensore di Castellammare di Stabia – avevo inconsciamente iniziato a fare scouting in campo. Quando smisi, nel 2015, il presidente Foti mi propose di rimanere a Reggio e lì trovai un certo Di Lorenzo: mi bastarono venti giorni per capire che quel ragazzo sarebbe arrivato in Nazionale. Aveva 22 anni e, anche per come si allenava, era già un fenomeno. Oggi ci vediamo spesso, siamo rimasti amici. Non so quante maglie gli avrò chiesto in questi anni, merita di essere Campione d’Italia”.

 

Saltare da un aereo all’altro e da uno stadio all’altro è un lusso, oltre che la cura per essere felici. Sicuramente lo è stata per Bruno. Perché tra l’ultimo pallone calciato e il primo giorno da osservatore, si era creato un abisso psicologico che lo aveva reso prigioniero. “Un periodo molto buio, di panico e depressione – rivela Cirillo – Il distacco dal campo fu traumatico, soffrii per circa due anni. Per lasciarti tutto alle spalle serve una grande forza interiore e per fortuna oggi sto meglio, ma non è stato semplice. Le persone fanno fatica a capirti perché se non ne hai mai sofferto, non puoi essere realmente d’aiuto. Io ero diventato totalmente un altro e perciò mi feci aiutare da alcuni professionisti. La differenza però, alla fine, sei sempre tu a farla”. Stati diffusi che lo sport tende forse ancora a ignorare. La verità è che quello che succede dopo, per gli altri, non conta più. O meglio, conta solo per pochi. Funziona così: per un bel po’ di anni sai esattamente cosa fare e come farlo, ma quando il corpo dice che devi fermarti inizia inevitabilmente una vita mai sperimentata prima.

 

“Mi scriveva un sacco di gente che provava le stesse cose – continua Cirillo – e io, nel mio piccolo, ho cercato di sostenerla. Raccontare la mia storia ad altri che come me stavano soffrendo è stato come segnare ai Mondiali. Per questo vorrei essere un valore aggiunto anche psicologicamente per tutti i calciatori con i quali mi relaziono. Con alcuni esiste un rapporto di fiducia che, qualche volta, diventa fraterno. Qualcosa di straordinario in un contesto nel quale nessuno aiuta più nessuno”. Il nuovo mondo si chiama scouting. Andare a caccia dei piccoli talenti, scoprirli e fortificarli, per conto delle agenzie di procura. Prima quella di Federico Pastorello, poi quella di Vincenzo Pisacane con la sua GEV Sport & Management. Un’agency che muove pedine in tutto il mondo attraverso una decina di agenti, legali e scout. Circa 70 assistiti, tra i quali Lorenzo Insigne, Armando Izzo e Danilo D’Ambrosio. Un’anima che non smette di evolversi.

“Stiamo provando a fare tutto il possibile per offrire un servizio totale – spiega Cirillo – Quando giocavo io al massimo ti trovavano una squadra, oggi un’agenzia credibile ti supporta in ogni aspetto: social, diritti d’immagine, viaggi, commercialista, medici, burocrazia. E noi vogliamo essere sempre più credibili e strutturati”. È chiaro: la Industry Calcio si espande, i procuratori fanno lo stesso. Incidono in un palcoscenico fortemente liquido come quello del football. Missione possibile anche grazie all’ingaggio di professionisti specializzati e verticali, tra i quali gli ex calciatori. Figure profittevoli in quanto dotano l’agenzia dell’occhio e della mente di chi ha giocato ad alti livelli. “Un effetto prezioso per gli assistiti perché hai vissuto prima di loro sensazioni, felicità, malumori, panchine mai digerite e infortuni – riflette Cirillo – Quando si tratta di cambiare Club parli con il ragazzo, gli spieghi i motivi per i quali dovrebbe andare altrove: il carattere per gestire o meno la pressione di una determinata piazza, le caratteristiche tecniche per adattarsi all’allenatore di quella squadra. Non è mai solo una questione di soldi perché, al di là dell’ingaggio, cambiare ambiente può aprire mondi impensabili. Per Insigne è stato così: sono sicuro che a Lorenzo Toronto darà tantissimo”. Forse è già un trend: le agenzie di procura puntano sugli ex calciatori per potenziare le skills, sempre che questi non studino per fregiarsi direttamente del titolo di agente. Lo sanno, sono stati in campo, hanno una marcia in più.

 

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