Il Foglio sportivo
I miei due anni vissuti come il Ted Lasso delle Zebre
Dalai racconta come si sta da alieni nel tempio. Da editore ad allenatore di rugby. Un’utopia umana e sportiva
Per due anni sono stato Ted Lasso, più o meno consapevolmente. Non ho il talento di Jason Sudeikis e non sarei mai riuscito a immaginare una storia come la sua ma la conosco bene, alle Zebre ho conosciuto benissimo la sensazione dell’alieno nel tempio, del turista tra i fedeli. Ho amato ogni minuto di Ted Lasso, la serie che ha affermato con grazia alcuni dei principi in cui credo da sempre: gentilezza, ascolto, empatia. Ho amato ogni minuto nel rugby, alle Zebre, ho cercato di portare al club e alle persone con cui ho lavorato la mia idea del mondo e di ascoltare la loro. Siamo cresciuti insieme per due anni. Come Ted Lasso conosco la sensazione dell’ultima puntata, della fine della serie, del momento di tornare a casa. Sono un uomo di comunicazione e sono stato un imprenditore, non vengo dallo sport ma ho lavorato molto con lo sport. Come Ted Lasso sono arrivato alla mia squadra per caso, nessun progetto, nessuna programmazione ma la stessa intenzione della proprietà: mettiamoci uno a caso, non può che andare male. Lasso allenava una squadra di football americano e di calcio sapeva poco o nulla. Io facevo l’editore e ho diretto aziende nel mondo dei media, di rugby giocato sapevo giusto quello che si impara al bancone dopo la quarta media chiara. Sapevo gestire aziende e gruppi di lavoro, quello sì. Come Ted Lasso ho rifiutato di smontare il giocattolo, a differenza di Ted non ho lavorato sul progetto sportivo perché ognuno deve fare il proprio lavoro e la vita non è una bellissima serie di Apple Tv. Ho cercato con tutte le mie forze di trovare finanze, dare serenità al gruppo, costruire consenso. Quello era il mio lavoro, quel lavoro ho amato. Abbiamo perso (quasi) sempre e mentre per il Richmond di Lasso è stata solo questione di trovare coesione, per le Zebre la storia è diversa, molto. Il rugby è una versione più elegante e meglio organizzata di una rissa sulla pista degli autoscontri. Può capitare che di tanto in tanto vinca il più scaltro ma in genere è difficile. Lo sapevano tutti fin dal giorno uno ma è divertente vederli strapparsi le vesti e cercare colpevoli e cause.
Abbiamo perso perché gli altri erano più forti, punto. Pare io sia stato troppo buono, ma cosa significa di preciso essere buoni in un mondo di adulti e professionisti? Qualcuno crede ancora alla barzelletta dei sergenti di ferro? Ho cercato di essere un pesce rosso, come dice Ted, di dimenticare le brutture e rilanciare. Sono stato fortunato, come Ted ho incrociato persone meravigliose. Sono stato meno fortunato di Ted perché la sua presidentessa si è ravveduta e ha capito la forza dei gesti gentili e sbilenchi di Lasso, io ho avuto a che fare con una versione un po’ diversa del potere, un modello più nordcoreano, quello in cui i generali un giorno vengono premiati e quello dopo cannoneggiati sulla grande piazza. La grande domanda che chi sta fuori dallo sport professionistico si pone è: esiste davvero la partizione netta tra tra bene e male, quella che Ted Lasso racconta? Siamo davvero tutti in cammino verso la redenzione? I cattivi sono cattivi solo perché non sanno di essere buoni? La risposta è deludente: no.
Il mondo di Lasso è una bellissima utopia umana e sportiva, il mondo delle Zebre e dello sport in senso più largo è un grande crocevia di esigenze e incentivi, dominato da bisogni e ambizioni personali, professionalità e slanci di alcuni e improvvise alzate di ingegno dei Kim Jong in carica. Il mondo di Lasso è fatto di fiducia, libertà e deleghe in bianco, il mio è stato anche un percorso di imposizioni irrazionali, tensioni non necessarie, condizionamenti esterni. Il Richmond sta bene a Richmond, le Zebre sono state promesse a chiunque e stanno male ovunque perché come disse uno bravo sono ‘la squadra meno amata da chi la possiede’. Così diventa impossibile non innamorarsene perché come si fa a non amare una squadra perdente? Ti frega sempre, da un lato cerchi di aiutarla a vincere e dall’altro la proteggi dagli insulti. Già, gli insulti.
Ted Lasso è perseguitato da un sacco di sconosciuti che gli danno del wanker, del segaiolo. Alla fine, diventa quasi un vezzo, un modo affettuoso di incoraggiarlo. Io mi son preso del wanker per due anni, un po’ meno affettuosamente. Gli insulti sui social sono parte del lavoro, mio e di Ted Lasso. È un istinto che molti non controllano, è gratis. Se però a darti del segaiolo son quelli che dovrebbero aiutarti, la cosa cambia. È che se lo guardi da lontano il rugby italiano è bellissimo, il mondo dei valori. Da vicino è una specie di guerra dei Cent’anni o forse solo un monologo di Aldo, Giovanni e Giacomo in cui tutti odiano tutti per sempre e da sempre, tanto che qualcuno ci ha costruito una carriera al momento molto felice e quest’odio insensato è l’unica benzina per andare avanti. Un po’ il contrario del mondo di Lasso. Ho viaggiato, conosciuto dirigenti, allenatori, tifosi e giocatori in giro per il mondo, è stato un privilegio enorme perché amo le storie e sono curioso delle persone. Be curious, not judgemental, è una delle mie citazioni preferite di Ted Lasso proprio come Believe, credere. La parola magica di Ted Lasso, il cartello appeso nello spogliatoio, il mantra su cui la squadra si è aggregata. Una cosa bellissima ma non funziona così, non esiste una ricetta magica. Esistono le persone, la somma delle loro volontà. Anche io ho avuto Roy Kent, il burbero dal cuore d’oro. Il mio Roy non era un giocatore e nemmeno un allenatore, il Kent delle Zebre era un dirigente dalla mascella serrata, il dialetto fluente e l’umanità straripante. Anche io ho avuto la mia Rebecca solo che non era la proprietaria della squadra ma la direttrice operativa, un’esplosione di umanità e casini meravigliosi. Anche io ho avuto il mio coach Beard, nella mia vita di tutti i giorni è stato un team manager leale e sempre presente, un amico fraterno. Anche io ho avuto il mio Jamie Tartt ed era proprio un giocatore, un talento enorme in cerca della sua strada, un ragazzo che sa di poter stupire il mondo ma deve ancora capire come (Jacopo so che puoi farlo). Anche io ho avuto il mio Richmond, i miei cinquanta figli e il gruppo di allenatori, preparatori e personale degli uffici sono stati la mia missione quotidiana.
Believe, ho cercato di farli credere al mio stesso sogno, alla possibilità di vincere contro ogni pronostico, contro tutti, contro i luoghi comuni. Io dico che ce la faranno anche senza di me. Ricordo che il primo giorno al club, due anni e qualche mese fa, uno dei tanti figuranti della politica e del potere tragicomico del rugby mi consigliò di tener chiusa la porta della presidenza, di mettere distanza tra me e i ragazzi. La mia porta è sempre rimasta aperta, sempre. Dice Ted Lasso che il suo lavoro non è vincere o perdere quanto piuttosto rendere quei ragazzi delle persone migliori dentro e fuori dal campo. Ci ho provato Ted, ora tocca a loro.