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la 10a tappa

Tour de France. La strana solitudine di Woods e Pogacar sul Puy de Dome

Giovanni Battistuzzi

In cima al vulcano, il canadese vince la nona tappa della Grande Boucle. Lo sloveno stacca ancora la maglia gialla Jonas Vingegaard

Quando il professor Bernard Brunhes venne assegnato all’osservatorio di fisica terrestre di Clermont-Ferrand, non aveva mai visto un vulcano dal vivo, non aveva mai guidato un’automobile, non aveva mai pedalato in vita sua. Era il 1900, aveva 33 anni, imparò a fare tutto questo in meno di un mese. Il Puy de Dôme divenne la sua seconda casa: l’osservatorio era in cima al vulcano; le automobili le giudicò noiose e inutili: la prima a raggiungere la vetta fu nel 1905, ma ci impiegò oltre quattro ore; imparò a pedalare, lo giudicò eccitante, in nemmeno un anno iniziò a salire da Clermont-Ferrand all’osservatorio in cima al Puy de Dôme in poco più di due ore. Fu in una di queste ascese che ebbe l’idea che lo consegnò alla storia della scienza: la dimostrazione di come ogni un tot di migliaia di anni i poli magnetici del nostro pianeta si invertono. Scrisse: “Pedalare nell’assoluto silenzio è un toccasana per la mente, aiuta a riflettere sul già fatto e sul da farsi, a creare un reticolato efficace per la valutazione del proprio lavoro”.

Non è semplice trovare silenzio mentre si pedala. Quasi impossibile per i corridori mentre disputano una gara ciclistica. Hanno provato l’effetto che fa oggi salendo sul Puy de Dôme, percorrendo gli ultimi quattro chilometri interdetti al publico, alle auto per compromesso con l'amministrazione locale: potete tornare sul vulcano dopo 35 anni, ma alle condizione nostra e del parco nazionale. Peccato che le moto della televisione e dell’organizzazione abbiano rovinato un po’ l’atmosfera (la tappa però non potevamo non vederla).

Tadej Pogacar salendo verso la cima del Puy de Dôme ha avuto il modo e il tempo per ripensare sul già fatto e sul da farsi. Forse ha ripensato a ciò che non era andato sul Col du Marie Blanque. Forse ha indagato il perché verso Cauterets-Cambasque era riuscito a staccare Jonas Vingegaard. Forse non ha fatto niente di tutto questo. Non è uomo di scienza lo sloveno, è uomo d’azione e di bicicletta, ha pensato che il Puy de Dôme fosse una buona occasione per aggiungere insicurezze a quelle che il danese ha accumulato dal Col du Tourmalet in poi, da quando non era riuscito a mettere in pratica il colpo di stato al Tour de France. Tadej Pogacar c’è riuscito, ha messo tra lui e Jonas Vingegaard altri otto secondi: ne ha ora 17 di ritardo.

   

Foto Ap, via LaPresse
   

Contano poco i secondi però, soprattutto in una salita così: certe pendenze allungano le distanze e accorciano paradossalmente i distacchi. Conta più la dimensione scenica, quei pochi metri che si accorciavano a una decina e si allungavano a una trentina come un elastico di speranze sospese e paure non taciute. Jonas Vingegaard aveva davanti agli occhi la schiena di Tadej Pogacar, la vedeva avvicinarsi all’aumentare del ritmo, la vedeva allontanarsi dopo averne visto il viso. Lo sloveno sembrava giocare al gatto con il topo, solo che lui era il topo che scherzava il gatto, gli dava l’illusione di poter essere raggiunto, poi rimetteva in chiaro le cose riprendendo i metri che aveva perso: anche dai cartoni animati di Tom e Jerry si può trarre insegnamento. Difficile che possano prendere spunto da questo gli avversari. Quando quei due, i soliti due, accelerano, gli altri non si staccano e di parecchio. Sarà una sfida a chi resiste di più e meglio alla lontananza. Le gerarchie non sono ancora definite: quello che valeva ieri non vale oggi e chissà se varrà domani. Simon Yates sembra quello più costante e con le gambe migliori, Jay Hindley quello con più fantasia, a volte può bastare.

Era dal 1988 che il Tour de France non saliva sul Puy de Dôme, problemi politici, ambientali, di sicurezza e la Grande Boucle, si sa, muove un sacco di gente, ha bisogno di un sacco di spazio. Nel silenzio non è dato sapere se i corridori hanno provato le stesse sensazioni del professor Bernard Brunhes, senz’altro hanno visto ciò che generazioni e generazioni di ciclisti non hanno mai visto e che, probabilmente, avrebbero invece voluto vedere: ciò che è più raro è di solito più ambito.

Matteo Jorgenson è stato il primo a imboccare la strada proibita oltre un minuto e mezzo prima di chi con lui aveva cercato di fuggire dal gruppo, circa un quarto d’ora in anticipo da questo. Aveva abbandonato la compagnia dei tredici compagni d’avventura di giornata che mancavano una cinquantina di chilometri dall’arrivo. Aveva valutato che erano troppi, che era meglio stare da soli, soprattutto per uno come lui che non ha nello scatto e nel pedalare forti su pendenze a due cifre il suo punto forte. Sembrava avesse fatto i conti giusti, li ha sbagliati per meno di mezzo chilometro. Michael Woods invece li ha fatti in modo perfetto. Si era a lungo disinteressato delle sorti della fuga, dei tentativi degli avversari si cercare di prendere il largo. Lo muoveva una certezza che partiva dall’esperienza. Quando le pendenze sono costantemente sopra il dieci percento a contare, in una fuga, sono i chilometri nei quali le pendenze sono superiori al dieci per cento. E così appena la strada si è azzittita e i tifosi sono scomparsi, il canadese si è liberato dei compagni di avventura e ha iniziato a riprendere uno a uno quelli che lo avevano staccato in pianura. Michael Woods in cima al Puy de Dôme c’è arrivato da solo e per primo. È diventato un nome e cognome in una lista di nomi e cognomi di eccezionale livello: a partire da Fausto Coppi, primo vincitore della storia al Tour de France nel 1952.

 

Foto Ap, via LaPresse
    

Michael Woods ha detto che gli hanno fatto uno strano effetto gli ultimi chilometri. Un po' per la fatica, soprattutto per il vuoto che gli stava attorno. Gli crediamo. Va solo capito se ha davvero senso disputare uno sport che anche grazie alla vicinanza del pubblico è unico al mondo, vietando l'accesso al pubblico.

Gli avventurosi hanno trovato spazio verso il Puy de Dôme, ne troveranno anche i prossimi giorni. Martedì e giovedì le vie del Massiccio centrale saranno terreno ideale per raccogliere occasioni che si pianteranno a ora di pranzo, al via delle tappe.