Foto Ap, via LaPresse

la 10a tappa

Il Tour de France prima esplode, poi si ricompatta con la vittoria di Pello Bilbao nel nome di Gino

Giovanni Battistuzzi

Per quasi due ore i corridori hanno stravolto e reso obsoleto il concetto di gruppo. Il corridore basco ha vinto (dedicando la vittoria al compagno di squadra morto al Giro di Svizzera) e ora è quinto in classifica generale

Nei primi chilometri della decima tappa del Tour de France, la Vulcania-Issoire, il concetto di gruppo aveva perso di senso. Valeva lo stesso per molti termini e molti modi di dire che si utilizzano mentre si parla di ciclismo, di corse, di corridori. Non c’erano inseguiti o inseguitori, chi prima veniva inseguito si trasformava in inseguitore in un attimo. La strada saliva e i corridori si sparpagliavano per la strada, piccole e grandi crisi si alternavano in coda alla corsa, mentre davanti, in quella che siamo soliti chiamare fuga, si sono ritrovati pure la maglia gialla Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar. E mentre accadeva questo dal lato opposto dell’incedere dei corridori invece che dei velocisti c’era David Gaudu, uno che doveva essere, almeno nei suoi piani, con gli altri a giocarsi il podio e non a inseguire con il fiatone e la paura di arrivare mezz’ora dopo quelli che avrebbe voluto scappare.

A pensare a quanti avvii di tappa “combattuti” che abbiamo letto senza aver la possibilità di vederlo, viene da credere che tanto del bello che abbiamo visto negli anni passati è stato molte volte solo un bello a metà.

Per quasi due ore i corridori del Tour de France hanno provato a riproporre ciò che un manipolo di un centinaio di persone provò a realizzare circa un secolo e mezzo dopo: un piccolo mondo anarchico, uno stato libero dalle leggi francesi, dalle leggi in generali. Andò male ai riottosi allora: il primo presidente della Terza Repubblica francese, Adolphe Thiers, ordinò di sedare in modo violento la pacifica indipendenza richiesta prima e dichiarata poi. È andata meglio agli avventurosi. La striscia di lava partita dal via di Vulcania ha fatto evaporare il gruppo trasformandolo in goccioline. Poi la nebulizzazione si è fermata, le goccioline sono diventate gocciolone, le particelle impazzite hanno trovato la loro dimensione. L'hanno trovata, il caos si è stabilizzato. Wout van Aert e Mathieu van der Poel hanno provato a riaccenderlo, si sono fatti qualche chilometro in avanscoperta pensando fosse facile riprendere due minuti abbondanti alla fuga. Non è facile nemmeno per loro. Hanno desistito.

Davanti si sono incastrate, alla lunga, quattordici buoni propositi di vittorie di tappa, rimonte in classifica generale, perlustrazioni per contratti con timbro 2024.

I propositi migliori ce li aveva Pello Bilbao. Voleva vincere, voleva riscattare un Tour de France un filo troppo deludente da parte della Bahrein-Victorius – Mikel Landa, il capitano designato, è indietro in classifica generale, il Landismo è un’utopia che sta finendo come quella anarchica del dipartimento del Puy-de-Dôme –, voleva raggranellare qualche minuto buono per poter sperare in un ottimo piazzamento a Parigi. E poi c’era il buon proposito iniziale, quello con il quale è partito dai suoi Paesi Baschi, quello di continuare ciò che aveva iniziato il suo compagno di squadra e amico, Gino Mäder, morto poche settimane fa mentre stava correndo il Giro di Svizzera: “Seguendo le orme di Gino e continuando la sua eredità, durante questo Tour de France donerò un euro all'associazione Basoak SOS per ogni corridore che si piazza dopo di me in ogni tappa. L'obiettivo è acquistare terreni disboscati e ripiantarli con specie locali”, aveva detto. Ogni tanto i buoni propositi fanno muovere le gambe più velocemente e più a lungo. Pello Bilbao è riuscito a vincere a Issoire. Era commosso sotto lo striscione, ha provato a essere tutto d’un pezzo davanti ai microfoni, non ce l’ha fatta fino in fondo, si è lasciato andare alla commozione. È riuscito a farlo prendendosi prima il compito di organizzare la fuga, poi di fare gran parte del lavoro per riprendere Krists Neilands, infuturatosi sull’ultima salita della tappa, ripreso a pochi chilometri dall’arrivo, poi piazzatosi quarto. Ora è salito in quinta posizione nella generale a poco più di quattro minuti e mezzo.

     

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Il lettone ha cercato l’avanguardia dal chilometro zero, si è scofanato una ventina di chilometri da solo avanti a tutti. Anche lui aveva i suoi buoni motivi per dannarsi gambe cuore e polmoni per arrivare prima degli altri. Voleva cancellare tre anni paperinici, fatti di intoppi in sequenza continua, piccoli sassolini che si trasformavano in valanghe di inciampi: se una cosa poteva andare male, gliene andavano male due. Oggi poteva andare meglio, se ne farà una ragione, tanto male non è andata. Una giornata da protagonista al Tour de France vale quanto meno un ingaggio per la prossima stagione. E Krists Neilands non ha voglia di finire a spasso a ventotto anni.

I buoni propositi hanno fatto quello che non è riuscito all’utopia dell’anarchismo e del ribaltamento completo del Tour de France. Non era forse pronta la Grande Boucle, non erano forse pronti i corridori, forse hanno solo valutato che i costi (energetici) potevano essere maggiori dei benefici. Poco male. Hanno donato ore di intenso piacere ciclistico. Non è il primo. Non sarà l’ultimo. C’è da volergli bene ai corridori.

   

Tour de France, 10a tappa: l'ordine d'arrivo e la classifica generale

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