ciclismo
Carlos Rodriguez vince a Morzine. Il Tour de France è un hard boiled
Pogacar attacca, Vingegaard non molla, lo spagnolo riscrive il finale con un attacco in discesa. La 14a tappa della Grande Boucle è un'altra pagina di un romanzo complesso, dal finale impossibile da prevedere. Ne sarebbe entusiasta Raymond Chandler: in scena ci sono due uomini con il fucile
A questo Tour de France, anzi ormai da almeno un paio d’anni, accade che quello che ci si è soliti aspettarsi da una tappa non si materializza mai in corsa. La realtà si spinge spesso oltre all’immaginazione, o quantomeno a ciò che uno può razionalmente attendersi.
Verso Morzine poteva, doveva, prendere spazio la fuga, guadagnare minuti, andare in scena un inseguimento più o meno convinto. La fuga c'è stata, di vantaggio ne ha preso, ma mai troppo, anzi decisamente poco, nonostante di corridori di grande livello ce ne fossero: da Thibaut Pinot a Giulio Ciccone, da Michael Woods a Mikel Landa, da Daniel Felipe Martinez a Guillaume Martin. La squadra della maglia gialla, Jonas Vingegaard, si è messa però avanti al gruppo – e chiamarlo gruppo è ottimistico – e, sin dall'inizio della quattordicesima tappa, ha messo in chiaro le cose: qui nessuno va da nessuna parte. Gli avanguardisti hanno ottenuto poco più di un minuto di vantaggio, abbastanza per Giulio Ciccone per mettere in saccoccia qualche decina di punti per la maglia a pois, che non servono oggi, ma chissà magari verranno buoni in futuro. Una serie di scatti e accelerazioni continua, corridori che fuggivano e rientravano, che provavano a imporre il loro passo e la loro volontà. La Jumbo-Visma dietro a controllare, ad accelerare e decelerare il ritmo a seconda delle velleità degli attaccanti che provavano a raggiungere Morzine prima degli altri.
A Morzine c’era finito lo scrittore americano Raymond Chandler in cerca di un luogo buono per dimenticare l’alcol. Non il massimo la scelta della Francia, ma tant’è. C'era rimasto qualche mese, il tempo buono per raggranellare anche qualche soldo a qualche conferenza e buttare giù un paio di sceneggiature. A Montreux, Svizzera, un’ora e mezza di auto da Morzine, il romanziere consigliò a centinaia di giovani scrittori che avevano pagato un sacco di franchi per sentirlo, di “non cercare di stravolgere troppo le regole narrative, perché un romanzo è sì arte, ma soprattutto un mezzo di intrattenimento per le persone. E i lettori non sono disposti a riconsiderare totalmente le loro esperienze narrative”.
Verso Morzine, dopo aver modificato la canonica trama della corsa a inizio tappa – già stravolta di suo da una caduta che aveva mandato a terra una ventina di corridori e fatto salire in ambulanza Antonio Pedrero e Louis Meintjes –, sul Col de la Ramaz e poi sulle prime rampe del Col de Joux-Plane (lì dove Marco Pantani si esibì in una delle sue imprese più belle e meno prevedibili), i corridori, quei pochi che erano rimasti nel primo gruppetto – pochi davvero –, sono ritornati nei canoni classici: Wout van Aert e Sepp Kuss davanti e dietro tutti quanti.
Non poteva durare a lungo, c’era troppo in gioco e non solo la maglia gialla. C’era un territorio da delimitare, un territorio non fisico, psicologico. Nessuno dei due, dei soliti due, si fida dell’altro. Tadej Pogacar non è sicuro di averne di più di Jonas Vingegaard. Jonas Vingegaard non è sicuro di averne di più di Tadej Pogacar.
Raymond Chandler consigliava che “se la trama latita fate entrare in scena un uomo col fucile”. L’uomo con il fucile oggi l’ha interpretato Tadej Pogacar.
Sul Col de Joux-Plane, a circa tre chilometri e mezzo dalla cima, lo sloveno ha messo in scena il suo pezzo migliore: il colpo secco sui pedali. Ha fatto cenno ad Adam Yates che era il momento di dare un’accelerata, poi c’ha pensato lui. Si è alzato sui pedali, è scattato, ha in poche pedalate messo metri su metri di distacco sul rivale. Sembrava il preludio dell’uomo solo al comando, si è trasformato in un balletto di coppia. La maglia gialla è infatti rimasta lì, a poche decine di metri, prima appeso alla speranza che Pogacar non avesse davvero più forza di lui, poi con la certezza che davvero Pogacar non aveva più forza di lui. Le loro strade si sono rincontrate, sono saliti assieme, nel timore di un colpo di mano dell’altro. Lo sloveno l’ha provato a poche centinaia di metri dal Gran premio della montagna in cima al Col de Joux-Plane, che dava qualche secondo di abbuono. Una moto lo ha fermato. Jonas Vingegaard l’ha preceduto in vetta al colle: otto secondi raccimolati.
Doveva essere affar loro la vittoria, ma il Tour de France non è un romanzo giallo, non c’è un assassino, è un hardboiled e l’uomo con il fucile non è mai quello che alla fine ne esce bene.
Nel reciproco timore Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard, si sono persi Carlos Rodriguez. Era stato il migliore – con Adam Yates – dietro quei due, i soliti due. Si è infuturato in discesa, fregandosene del giudizio della salita. Gli arrivi a valle hanno il merito di dilatare il godimento, la capacità di non rendere del tutto determinante il giudizio della strada che sale. È il processo d’appello. E a volte questo ribalta la sentenza.
Carlos Rodriguez ha avuto l’ostinazione giusta, quello di chi sa che darsi per vinto è il primo passo per il rimorso. C’ha provato, ha rischiato, a Morzine ha gioito. Ha ventidue anni, è al primo Tour de France, è ora al terzo posto in classifica generale. Ha un volto fanciullesco Carlos Rodriguez. I suoi occhi sono quasi imbarazzati per tanta attenzione. Dice che “è sorprendente” quello che è successo. Quasi non ci credeva, beata gioventù. Avrà tempo per non stupirsi più, perché se si è lì, a non troppa distanza da quei due, i soliti due, in certe tappe – e questa era un tappone da oltre quattromila metri di dislivello – vuol dire che di talento se ne ha e pure un sacco. E pure capacità di soffrire.
Alla Vuelta dello scorso anno Carlos Rodriguez arrivò a Madrid settimo dopo aver corso diverse tappe tutto incerottato. La tempra giusta ha già dimostrato di averla.
Come ha dimostrato di averla Adrian Petit, giunto a Morzine con oltre mezz'ora di ritardo, ma arrivato, nonostante uno squarcio sulla tibia e uno sotto la natica destra. Faceva impressione il taglio, faceva impressione vederlo in sella tutto storto nel tentativo di trovare una posizione buona per poter pedalare. E mancavano oltre centoquaranta chilometri all'arrivo. Un'impresa essere arrivato sotto il traguardo.
Domani ci sono ancora Alpi da scalare, c’è un arrivo a tratti irto da far male alle gambe. E le gambe sono stanche, appesantite da due settimane di pedalate veloci e in salita, di scatti fatti e medie elevate. E nessuna voglia di darsi per vinto da parte di nessuno. O almeno non da parte di quei due.
Domani ci sono ancora Alpi da scalare e dieci secondi a dividere Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar. Che sono pochi, poco più di un niente. E verrebbe voglia che il distacco scendesse a zero, che ci fossero due maglie gialle, un successo di coppia. Perché in coppia, uno contro l’altro, ci stanno donando pomeriggi stupendi, trame complesse e un finale ancora impossibile da immaginare. Sarebbe bello che il distacco scendesse a zero, vederli uno affianco all’altro sul gradino più alto del podio di Parigi, quello con dietro l’Arco di Trionfo al tramonto. Non sarà così, perché ogni gara prevede un vincitore e uno solo.