Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA
Milan Kundera, lentezza e imprecisione
Uno scrittore gioca con il tempo, lo piega al suo volere, alle esigenze di copione. Quello che conta è ciò che viene scritto, non la misura di quanto si è impiegato per farlo
Tra tutti i romanzi di Milan Kundera, ho amato più degli altri “La Lentezza”, quasi un trattato, una filosofia. Applicato alla modernità, quel libro passa sopra l’assurdo di questa esistenza esponenziale che travolge i sentimenti e li riduce in polvere, e ci invita a riflettere su come il tempo sia un concetto relativo, quasi inesistente per dirla alla Sant’Agostino. Poi, è chiaro, uno scrittore gioca con il tempo, lo piega al suo volere, alle esigenze di copione. Uno scrittore insegue un foglio bianco al di là del quale ci sono le parole. Quanto ci mette a raggiungerle? Anche una vita, non è importante, quello che conta è ciò che viene scritto, non la misura di quanto si è impiegato per farlo.
La lentezza ci aiuta a osservare il mondo e a capirlo molto meglio, a sbagliare di meno, a essere perfino più coraggiosi, di quel coraggio che non è istinto, furia (la furia provoca danni), ma consapevolezza, e quindi ragione, magari paura, ma non per questo pietà di sé. Colpito da quelle inspiegabili suggestioni che d’estate, con il caldo, si espandono fino a diventare olio bollente, mi scopro fortemente attratto da tutto quello che si muove lentamente, come se il vecchio Milan (lo scrittore) si fosse impossessato di me (magari fosse!), nelle ore della sua scomparsa. E mi travolgono tutti quei ricordi associati alla lentezza, alla misura cronometrica di un passo, o di un passaggio.
E visto che circa quarantuno anni fa, di questi tempi, la nostra Nazionale vinceva i Mondiali, mi sono venute in mente quelle scene del trionfo contro il Brasile. E tutto quello che ricordo, filtrato dalle immagini di una tv catodica dalla forma quasi cubica, è un lento incedere. Paolo Rossi, smunto e tragico nel suo viso segnato dalla fatica di ritornare a galla, scaglia un tiro dalla distanza che Valdir Peres, portiere d’albergo, tocca appena. È il gol del due a uno. Quel tiro, che allora mi sembrò un razzo, oggi me lo ricordo velleitario, fiacco. C’è una lentezza inspiegabile nella mia memoria, perché in realtà Pablito calciò forte anche se centrale (ma per il portiere brasiliano la sua casa era un albergo). E allora penso, stai a vedere che tutto è relativo, anche il tempo, misurato all’epoca, alla gioventù che sfuoca e annebbia qualsiasi immagine. Eppure mi piace questa indistinta dimensione che lascia intravedere, magari anche fraintendere con fascinosa imprecisione. Il chiaro ormai ci avvolge, il tempo corre come un discorso inutile. Tutto invecchia così precocemente che solo la lentezza, caro Milan, ci renderà giovani per sempre.
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