Il Foglio sportivo
Il dilemma di Arrapaho nel Tour de France di Vingegaard e Pogacar
Se non è giusto scegliere se si vuole più bene a mamma o papà, non è giusto farlo tra la maglia gialla e il suo sfidante. La grande bellezza di una Grande Boucle che li ha visti lottare scattoa dopo scatto
Palla Pesante chiese: “Dimmi Capo di Bomba, a chi vuoi più bene? A papà o a mammà?”. Capo di Bomba rispose: “A Pippo Baudo”. È una gran risposta quella di Capo di Bomba in Arrapaho (film del 1984 di Ciro Ippolito, secondo il Morandini “il più brutto film della storia del cinema italiano”, ma c’è chi non è d’accordo), l’unica che si poteva dare: non si risponde mai seriamente alle domande inutili. Certe cose non andrebbero nemmeno chieste. Come non va chiesto a un appassionato di ciclismo se vuole più bene a Jonas Vingegaard o a Tadej Pogacar. E non va chiesto non solo perché verrebbe fuori una netta maggioranza per il secondo, ma soprattutto perché è inutile scegliere tra l’uno e l’altro, è meglio prenderli insieme, uno contro l’altro. È nella sfida a due, nel duello scatto a scatto che il ciclismo appare nella sua forma migliore, riesce a generare una sensazione di puro piacere. Pedalare produce endorfine, veder pedalare riattiva quelle prodotte (forse, nessun scienziato è stato maltrattato nella stesura di questo articolo), vedere Vingegaard e Pogacar sfinirsi di scatti fa esplodere la produzione. Le prime due settimane di questo Tour de France sono state spettacolari anche grazie al loro duello. La trama della Grande Boucle, almeno fino a martedì, era aperta a qualsiasi finale: Vingegaard aveva staccato Pogacar durante la prima tappa sui Pirenei, Pogacar nella seconda e sul Puy-de-Dôme, la tappa sul Giura e la prima tra le Alpi finirono pari. Poi è arrivata la cronometro di Combloux nella quale il danese ha rifilato 1’38” allo sloveno in 22 chilometri. La crisi del secondo l’indomani sul Col de la Loze, ha dilatato il distacco a tal punto che è impossibile anche solo pensare di ribaltare l’esito della corsa nell’ultima tappa montana, quella di sabato sui Vosgi. L’equilibrio si è rotto sul più bello, all’inizio della terza settimana. Sull’arrivo di Courchevel, ormai quasi sicuro di aver vinto il suo secondo Tour consecutivo, Vingegaard era contento, ma non felice. Aver perso per strada il rivale per crisi di forza maggiore e non aver nemmeno dovuto sfidarlo, lasciarlo indietro dopo uno scatto, aveva lasciato anche alla maglia gialla una sensazione di rammarico, la stessa che portava negli occhi e nella pedalata sfinita lo sloveno.
Nel ciclismo l’uomo solo al comando è tanto più affascinante quanto è più forte chi lo insegue. E soprattutto quanto è più duro levarselo dalle ruote. Vingegaard e Pogacar in questi ultimi tre anni hanno dimostrato di andare veloce, soprattutto che serve parecchia forza e a volte un po' di invenzione per distanziare il rivale. In tre anni sono stati a lungo l’uno l’ombra dell’altro, due volti differenti ma perfettamente combacianti. Sono diversi, a tratti opposti, Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar. Ombroso, riservato, introverso il primo, solare, sorridente, estroverso il secondo. Come luna e sole, Dioniso e Apollo. Lo sloveno saluta, parla con tutti, dai colleghi ai tifosi. È esuberante e attraente. Si fa voler bene a forza di sorrisi. Il danese no, sembra sempre sfuggente, come fosse immerso in un mondo tutto suo. Fosse per lui non parlerebbe mai, solo pedalando trova la dimensione che gli si confà. Parla poco anche con i compagni di squadra, non certo per spocchia, per un misto di riservatezza e timidezza. Il suo primo direttore sportivo alla ColoQuick, Per Sandahl Jørgensen, disse di lui: “A volte era difficile levargli di bocca più di dieci parole di fila. Si esprimeva benissimo però sulla bicicletta. Si capiva che era solo una questione di tempo”. Anche nella gestione del tempo sono diversi, opposti. Pogacar durante il primo anno da professionista, aveva 19 anni, ha subito vinto otto volte, è salito sul podio alla Vuelta, s’è concesso il lusso di staccare in salita gente come Primoz Roglic, Alejandro Valverde, Nairo Quintana, Miguel Angel Lopez. Jonas Vingegaard no, c’ha messo più tempo. È dovuto passare per una squadra Continental (serie C del ciclismo), ha impiegato un anno e mezzo prima di vincere. Quando è approdato alla Jumbo-Visma c’ha messo un altro anno e mezzo prima di farsi selezionare per una grande corsa a tappe: alla Vuelta del 2020 (46esimo). Tutti in squadra erano convinti che sarebbe diventato un campione: con certi valori fisiologici difficilmente non si diventa vincenti. Tutti a parte lui. Quando l’ha capito è stato schierato al Tour e l’ha concluso al secondo posto dietro a Pogacar.
Nel 2021 Pogacar sembrava inavvicinabile, imbattibile. Vingegaard l'ha avvicinato e battuto. Da allora sono la stessa cosa, ma diversa, opposta. Una coppia di fatto. Per questo è inutile chiedere se si vuole più bene a Vingegaard o a Pogacar. Gli si va voluto bene in coppia. Anzi a duello.