(foto EPA)

Il caso

Niente politica, quando si sale in pedana conta solo l'etica sportiva

Sergio Soave

La sciabolatrice ucraina Olga Kharlan, dopo aver battuto la russa Anna Smirnova ai Mondiali di scherma in corso a Milano, ha rifiutato di stringerle la mano e per questo è stata squalificata. Non si possono ignorare le sue ragioni, ma nemmeno le regole dello sport, che sono una zona franca rispetto alla geopolitica

La sciabolatrice ucraina Olga Kharlan, dopo aver battuto sonoramente l’avversaria russa Anna Smirnova, ai Mondiali di scherma in corso a Milano, ha rifiutato di stringere la mano all’avversaria e per questo è stata squalificata. La scena particolarmente insistita (tre quarti d’ora) da parte della schermitrice russa, che non voleva lasciare la pedana senza ricevere soddisfazione per il mancato saluto (o meglio, pretendendo la squalifica dell’avversaria) è stata sgradevole e altrettanto antisportiva. Del resto non si possono di certo ignorare i sentimenti di Olga Kharlan, che in quella sfida rappresentava il suo paese che da 17 mesi subisce la sanguinosa invasione russa. Ma ovviamente non si possono nemmeno ignorare le regole dello sport, nel bene o nel male sempre considerato una zona franca dalla politica e (talvolta) persino dalle guerre. Il caso Olga vs Anna (Ucraina contro Russia) è uno dei tanti casi in cui sport e politica si intrecciano, oggi come in passato. 

 

Si può dunque discutere, come avviene da ieri, se la schermitrice ucraina abbia fatto bene a rifiutare la regola formale – nella scherma la stretta di mano dopo la gara è un obbligo, non solo un orpello di fairplay – o se appunto la decisione della squalifica da parte della Federazione internazionale sia invece giusta. La prima impressione è che la scelta di far gareggiare atleti russi non inquadrati in una squadra ufficiale (è già avvenuto alle Olimpiadi, mentre ad esempio nei Mondiali di calcio la Russia era stata estromessa) abbia poco senso: servirebbero decisioni meno occasionali. Ma una volta accettata la competizione, e il nome e la nazionalità degli avversari, deve far premio su tutto la legge dello sport, e il suo significato generale che è sempre quello di un “a parte” che indica non una dimenticanza dei conflitti, ma una superiore comunanza tra gli atleti.

 

Olga Kharlan ha scelto di competere (e battere: possiamo immaginare la soddisfazione) l’avversaria russa; lo ha fatto a differenza di un altro schermidore ucraino che il giorno prima si era ritirato per non incrociare le lame con un russo. Probabilmente Kharlan, che era stata campionessa olimpica ed era fra le favorite del torneo milanese, ha scelto la forma che riteneva più efficace per dare rilievo alla sua volontà di denunciare l’aggressione russa all’Ucraina. Ma ha così violato una regola essenziale, prima ancora che un regolamento specifico, della competizione sportiva. Che lo sport da sempre sia intrecciato con la politica e la propaganda nazionale è un fatto incontestabile, nonostante il diverso parere di chi si aggrappa al motto di De Coubertin per sostenere una surreale estraneità dalla politica di avvenimenti che suscitano l’interesse di grandi masse. Le competizioni sportive sono pacifiche, ma le squadre che sfilano dietro la bandiera nazionale e quando vincono ascoltano l’inno hanno un certo ruolo di rappresentanza. Ma lo sport resta e deve restare un’altra dimensione. Jessie Owens costrinse Hitler a congratularsi con un esponente della “razza inferiore”, Panatta scese in campo a Santiago, durante la dittatura militare, con una maglietta rossa. Ma le scelte, pro o contro, vanno fatte prima, e una volta in campo, conta solo il campo e la sua specifica etica, per quanto imperfetta. Non rispettarla fa perdere lo sport, non è detto che aiuti a vincere le guerre.

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