Il Foglio Sportivo
Viaggio nell'universo femminile. Un'analisi
Quanta fatica in Italia per chi pratica e segue calcio, basket e ciclismo rosa. Una posizione indubbiamente minoritaria rispetto al polo fortissimo degli scettici uniti nella denuncia della scarsa spettacolarità di questi sport
C’è un lato sbagliato della storia sul quale è poco raccomandato sedersi, soprattutto in Italia: appartenere alla minoranza così follemente innamorata del pluriverso che chiamiamo sport da trovare nella versione femminile di molte discipline, soprattutto quelle più seguite, discusse e commentate nella loro veste maschile, calcio e basket su tutti, una moltiplicazione interessante e coinvolgente di talento, nuove e diverse possibilità corporee, storie, successi, cadute, rinascite, in un felice raddoppio di passioni e senza conferire un peso esclusivo alla dimensione di attivismo femminista che pure fa da sfondo storico all’emergere di questi sport e alla loro legittimazione pubblica. Una posizione indubbiamente minoritaria, da valdesi della fede agonistica, terza via eretica stretta nella morsa tra l’attivismo di cui sopra, con i suoi ottenimenti, ma anche le sue pesantezze retoriche, e il polo fortissimo dei denigratori seriali e degli scettici uniti nella comune denuncia della scarsa o nulla spettacolarità di questi sport, segno della loro insussistenza metafisica. È da questa prospettiva eretica che vogliamo analizzare quattro vicende recenti e attuali dello sport femminile globale, che serviranno da sfondo per una riflessione conclusiva sulle forme della cultura sportiva italiana contemporanea.
Fatto numero uno: mentre in Australia e Nuova Zelanda si sta disputando la nona edizione della Coppa del Mondo femminile di calcio, che batterà ogni precedente record di spettatori dal vivo e di audience televisiva globale, è interessante prendere nota di alcune novità recenti accadute nel panorama calcistico europeo. Il Sacro Graal inseguito dagli sport femminili è da sempre la generazione autonoma di ricavi, che, se strutturalmente mancante, rende difficile togliersi di dosso l’etichetta di insussistenza evocata poco fa. La vera notizia è che nel pianeta calcio femminile stanno cominciando a girare soldi propri. Il Barcellona ha recentemente comunicato che i ricavi da sponsor della prima squadra femminile nella stagione da poco conclusa con la vittoria della seconda Champions League sono stati di otto milioni di euro, e quelli al botteghino di due (numeri confrontabili a quelli di molti club della fascia destra della classifica della serie A maschile), traguardo storico che per la prima volta ha permesso il raggiungimento dell’autofinanziamento. In Inghilterra il ceo dell’Arsenal, Vinai Venkatesham, ha dichiarato che nel giro di pochi anni tutte le partite della squadra femminile verranno disputate all’Emirates Stadium, per un campionato che sta vedendo crescere spettatori, ricavi da diritti televisivi e sponsor a ritmo sostenuto. In Francia invece il 52% delle quote azionarie della plurivittoriosa sezione femminile del Lione è stato da poco acquisito (la cifra si aggira sui 26 milioni di euro) dalla vulcanica imprenditrice americana Michele Kang, già proprietaria delle Washington Spirit, che ha dichiarato di voler creare la prima multi-proprietà globale al femminile, seguendo il modello del City Football Group.
Fatto numero due: lo scorso 15 luglio a Las Vegas, in occasione dell’All-Star Game Wnba, Sabrina Ionescu, guardia delle NY Liberty, ha vinto la gara del tiro da tre con uno strepitoso record di 37 punti, cifra mai raggiunta neanche dai colleghi maschi. Il video della sensazionale performance è diventato immediatamente virale sui social e subito sono piovuti i complimenti di numerose star Nba, a partire da Steph Curry, che le ha già lanciato il guanto di sfida, per una giocatrice che già nel 2019, da atleta universitaria, aveva ricevuto la benedizione e i consigli di Kobe Bryant. Nata nel 1996 per capitalizzare l’onda dei Giochi Olimpici di Atlanta, la Wnba è una lega che negli ultimi due decenni è vissuta in un cono d’ombra mediatico rispetto all’omologa maschile, ma che per diversi analisti americani, se analizzata da una prospettiva storica, sta oggi in una posizione temporale e di potenzialità paragonabile, ovviamente con le dovute proporzioni, all’Nba dei primi anni ’80. Un ottimismo derivante anche e soprattutto dall’esplosione di interesse registrata per le ultime finali Ncaa femminili, quella dello scorso marzo tra Lousiana State e Iowa vista su Espn addirittura da 10 milioni di americani, con un’altra eroina, Caitlin Clark, a calamitare attenzioni e attese future, nel rimpianto collettivo per la perdita di Gigi Bryant, che, in una logica di predestinazione, sarebbe probabilmente divenuta l’icona globale di questo sport e di questa lega.
Fatto numero tre: si concluderà domani con una cronometro la seconda edizione del Tour de France femminile, competizione che con denominazioni variamente camuffate aveva tentato varie volte di proporsi sulla scena pubblica negli scorsi decenni, con esiti sempre fallimentari. La prima edizione con la denominazione ufficiale ha ottenuto lo scorso anno ottimi riscontri di pubblico, una buona raccolta di sponsor, 20 milioni di telespettatori complessivi in chiaro su France Television, più altri 14 a livello globale. Fatto numero quattro: da questa stagione la F1 ha creato una competizione, la F1 Academy, riservata ai giovani talenti motoristici femminili, con l’obiettivo di lungo termine, non troppo dichiarato ma reale, di poter avere tra un decennio una partecipazione mista, anche minima, nel suo campionato principale. La garanzia del progetto è nella persona a cui è stata affidata la sua guida manageriale, Susie Wolff, moglie di Toto e a sua volta ex-pilota. Per carità, non è tutto oro quel che luccica, due club non fanno primavera di sostenibilità economica, due giovani star non fanno da sole una lega di successo, il Tour femminile dovrà confermarsi attrattivo nel tempo, una volta scemato l’effetto-novità, mentre il progetto della F1 Academy è nato per mettere una pezza al rapido fallimento economico e gestionale del progetto W Series. È importante ricordare una verità realistica: si possono costruire politiche per le pari opportunità di accesso alla pratica sportiva, ma non politiche per le pari attenzioni televisive del pubblico, a meno di non scomodare Arancia Meccanica in chiave di radicalismo femminista. Tuttavia, realismo che scaccia realismo, se non ancora (o forse mai) abitati dalla passione costante di masse popolari, stiamo parlando di sport seguiti da nicchie di pubblico in costante espansione, soprattutto per il calcio, che esprimono nuovi gusti e tendenze del pubblico (la scelta plurale di cui abbiamo parlato all’inizio), nuove e più giovani fasce demografiche, da cui un interesse di club, sponsor e broadcaster non più solo per omaggio di facciata alla dea Diversity, ma come investimento per ottenere dei ritorni concreti.
Ripercorriamo ora i quattro punti da un’ottica italiana, con spirito di realismo e di leopardiana “filosofia dolorosa ma vera”: 1) In termini mediatici il movimento del calcio femminile ruota attorno all’andamento carsico dei risultati della Nazionale. Il gap di tecnica, atletismo, bacino di reclutamento, interesse del pubblico con i movimenti dei principali paesi europei è ancora molto ampio, la presenza di giovani talenti in grado di imporsi in poco tempo all’attenzione mondiale come la sedicenne Giulia Dragoni è però un segnale interessante; 2) la nazionale femminile di basket è reduce dall’ennesimo fallimento agli Europei, non si qualifica per i Giochi Olimpici dal 1996, il talento di Cecilia Zandalasini, che vinse l’anello Wnba nell’ormai lontano 2017, non è divenuto un fattore trascinante; 3) l’Italia del ciclismo femminile abbonda di grandi campionesse e il Giro d’Italia su Rai Due ha ottenuto dati d’ascolto sorprendenti, ma fino a poche settimane dal via l’assenza di un broadcaster aveva addirittura fatto paventare la possibilità di un annullamento della corsa; 4) nessuna ragazza italiana fa parte del gruppo coinvolto nel progetto F1 Academy, pianeta al momento distantissimo. Va qui posto un interrogativo scomodo: in una nazione dall’età media di 48 anni, economicamente impoverita da almeno un trentennio, con pochi laureati e una concentrazione demografica in piccoli e medi centri e non nelle aree metropolitane, possono avere un futuro radioso sport che necessitano di ingenti investimenti per il proprio sviluppo iniziale e che, nello zoccolo duro della propria fanbase, manifestano a livello internazionale caratteristiche opposte (molti giovani, molte donne, molti laureati, un radicamento nei grandi centri metropolitani)?
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