Il Foglio sportivo
Che ci fanno tre baschi seduti in panchina in Premier
Arteta, Emery e Iraola vengono dalla stessa regione per sfidare un catalano, Pep Guardiola
Un catalano e quattro baschi entrano in un pub e… E niente: perché uno di loro cambia idea sulla soglia e rovina la serata, anche se ora basta un tavolo per accomodarli tutti e farli andare d’accordo. Pep Guardiola, Mikel Arteta, Unai Emery, Andoni Iraola: pronti a una serie di confronti tattici che, a giudicare dagli spunti subito dati dal duello tra il Manchester City di Pep e l’Arsenal di Mikel nel Community Shield, saranno tra i più interessanti della stagione. Un catalano alla crema e tre baschi, appunto, con una curiosità davvero rara: nati tutti e tre nella provincia di Gipuzkoa, con 1.980 metri quadrati la più piccola di tutta la Spagna e con soli 720.000 abitanti, una buona parte dei quali residenti nella capitale, San Sebastián. I Paesi Baschi, si sa, nel calcio devono molto al Regno Unito: la Real Sociedad fu fondata da inglesi e pure l’Athletic Club, a Bilbao, che ha oltretutto la maglia biancorossa perché fu quella che comprò al ritorno in patria, non avendo trovato alternative, uno studente locale che aveva trascorso il Natale del 1909 a Londra. Anche se di recente una ricerca corroborata da prove interessanti ha scoperto che l’origine sarebbe forse nell’analogo biancorosso del Sunderland. Che l’influenza inglese torni indietro, modificata e migliorata, non è nemmeno così sorprendente, allora, ma fa specie che fino a mercoledì, fino alle dimissioni di Julen Lopetegui, decisosi a lasciare il Wolverhampton di fronte all’ennesima mistificazione degli obiettivi di un club al quale l’opinione pubblica fa passare lisci troppi affari, di fatto un quinto delle panchine di Premier League fosse occupato da tecnici nati nella stessa regione e nella stessa provincia.
Anche se la loro formazione non è comune, in parte per via delle diverse età e dei diversi percorsi da calciatore: 52 anni Emery, leader di un Aston Villa attesissimo, che a suo tempo ha avuto 339 presenze perlopiù a livello medio-basso, 41 Iraola e Arteta, colonne di varie squadre, con il primo addirittura a 406 partite in Liga con l’Athletic, da terzino destro intelligente e creativo. Sicuramente la novità più interessante, anche se tra i baschi è l’unico che certamente non è favorito per il titolo. Tra i suoi allenatori, Marcelo Bielsa, e qui scatta l’allarme: perché una parte delle caratteristiche dell’Iraola allenatore viene direttamente dal padre nobile argentino, riconosciuto come maestro anche da Guardiola. L’attenzione alla forma fisica, la richiesta di incessante corsa sul campo, la marcatura spesso a uomo, che quando viene applicata nella metà campo avversaria rende difficile comprendere il ‘modulo’ (virgolette obbligatorie) base. La reputazione di Iraola è esplosa nel giro di neanche tre anni, e quasi per caso: terminata la carriera nel New York City Football Club, sotto un Patrick Vieira che gli ha trasmesso la necessità di non far mai pesare la propria esperienza come giocatore, avrebbe voluto aprire una libreria, ma l’incoraggiamento di Vieira stesso, il passaggio al ruolo di centrocampista e un forte interesse per la complessità tattica della Nfl, assaggiata da vicino, lo portarono a frequentare il corso per la licenza Uefa organizzato dalla Federazione spagnola, nel quale si diplomò assieme a Lionel Scaloni, allenatore poi dell’Argentina campione del mondo.
Vieira, Bielsa, José Luis Mendilibar, Ernesto Valverde: un pezzetto di conoscenza da ognuno di loro e pure da Eddie Howe, ora avversario con il suo Newcastle United, che dopo l’addio al Bournemouth occupò parte del suo tempo per andare a vedere gli allenamenti del fenomenale Rayo Vallecano di Iraola, tappa successiva ai mezzi miracoli compiuti con il Mirandés in seconda serie, la stessa dalla quale il Rayo salì al primo colpo, nel 2020-21. Il valore di Iraola, perlomeno quello percepito, è stato chiaro a tutti il 19 giugno, quando proprio il Bournemouth, dopo aver rinnovato il contratto a Gary O’Neil, artefice della salvezza, lo ha esonerato per prendere il basco, nel timore che qualcun altro lo facesse. La curiosità è che il Bournemouth di O’Neil – che ha ora sostituito… Lopetegui – giocava nella maniera opposta a quella che prescrive Iraola: poco pressing alto, due linee ravvicinate centrocampo-difesa, laterali di difesa con limitati compiti offensivi. Ora tutto è cambiato, e sarà interessante capire quanto la squadra abbia recepito nel precampionato, in cui però già si è visto tanto, proprio perché la proprietà del Bournemouth si è mossa in tempo. Ed è una filosofia differente da quella di Arteta e di Xabi Alonso, con cui Iraola giocò, tanti anni fa, nel piccolo club locale chiamato Antiguoko. Medesima origine, dunque, medesimo radicamento nelle tradizioni e nella storia locale (i genitori di Lopetegui erano specialisti nelle competizioni di sollevamento… massi), medesima voglia di conservazione di una identità fortissima e ribadita in ogni momento, anche nei dettagli dei ritorni a casa, della riconoscenza a chi ha dato il via alla carriera, e pazienza se le filosofie di gioco sono differenti.
Arteta, del resto, nel Barcellona non sfondò ma ebbe la possibilità di osservare i suoi ‘rivali’ Andrés Iniesta e Xavi e lo stesso Guardiola, accentuando così la propria naturale idea di gioco di squadra e altruismo, a volte raccontati in una forma edulcorata: come quella volta in cui, a livello giovanile, Arteta e l’amico e coetaneo Jon Alvarez erano appaiati con 46 (46!) gol in testa alla classifica cannonieri, e l’attuale allenatore dell’Arsenal dopo aver dribblato tutti passò la palla al compagno di squadra, che non sfondò poi nel calcio ma divenne fisioterapista del Barcellona. Arteta, del resto, aveva sempre avuto una testa diversa: faceva comunella con gli altri baschi alla Masia, il centro tecnico blaugrana, ma aveva una maggiore attenzione al quadro generale. Anche se non risulta che né all’Antiguoko né al Barcellona qualcuno abbia mai avuto la (splendida) idea, applicata pochi giorni fa, all’Arsenal, di far fare la foto ufficiale anche al… Labrador diventato una presenza fissa al campo di allenamento, e chiamato Win. Vincere: farà sorridere, ma Arteta anche così carica i suoi.