Il Foglio sportivo
La testa dura di Filippo Ganna
Non è stato a sentire tutti quelli che volevano convincere a scegliere tra pista e strada (in favore della seconda) e ha riportato i velodromi (che gli italiani sembrano aver dimenticato) al centro del mondo ciclistico
La fortuna – in realtà è un dono – di Filippo Ganna è che non ha mai ascoltato il suggerimento dato, con faciloneria e soprattutto non richiesto, da molta gente che gravita attorno al ciclismo: scegli tra strada e pista. Il suggerimento prevedeva un altro consiglio: scegli la strada. E un non detto: tanto della pista non frega niente a nessuno. Si è disinteressato del giudizio degli “esperti”, è andato avanti facendo di testa sua. Non ha scelto, o meglio ha scelto che tra una e l’altra era meglio avere tutte e due.
C’era un tempo nel quale l’Italia amava i velodromi tanto quanto i grandi passi alpini. Un tempo nel quale le tribune degli ovali erano affollati tanto quanto sono adesso affollati i bar all’orario dell’aperitivo. C’era nessuno, tra gli appassionati di ciclismo, che non sapesse cosa fosse un Inseguimento individuale o come si corresse una gara di Velocità. A tal punto che le sfide ovali tra Sante Gaiardoni e Antonio Maspes erano raccontate e commentate come quelle montane tra Fausto Coppi e Gino Bartali. E Guido Messina, Leandro Faggin e Beghetto-Bianchetto – sempre in coppia, si può mica segare in due un tandem – entravano senza dubbio alcuno nella categoria dei grandi della bicicletta. In quegli anni sarebbe venuto in mente a nessuno di dire a Fausto Coppi di non correre nei velodromi. Un po’ perché l’Airone nelle riunioni su pista ci guadagnava un bel po’ di soldoni; un po’ perché nessuno avrebbe voluto di privarsi della possibilità di vedere il Campionissimo in pista.
È passato un bel po’ di tempo da allora, almeno sessant’anni. È cambiato tutto, nel ciclismo e nella gente, anche quella appassionata. Non poteva essere altrimenti. Potevano essere però evitate almeno quelle mezze parole di biasimo per la volontà di Filippo Ganna di continuare a muovere lo scattofisso in un velodromo. Parole sempre mezze, mai tutte intere perché altrimenti ci si espone al rischio di non poter salire sul carro dei vincenti quando al collo brilla la medaglia d’oro. Ed è un carro che si è visto spesso in questi anni: sei maglie iridate nell’Inseguimento individuale (l'ultima domenica 6 agosto), una nell’Inseguimento a squadre (oltre alla medaglia d’oro alle Olimpiadi). Oltre al Record dell’Ora.
Eppure anche quando Filippo Ganna vince su pista, c’è sempre un ma, il solito, che destabilizza il giusto riconoscimento che si dovrebbe dare a un campione. Ma su strada... Come non bastasse tutto questo, come se le vittorie su pista non fossero sufficienti. Rimane quel ma. Come non bastassero nemmeno due medaglie d’oro nella cronometro dei Mondiali per dare a Ganna quel che è di Ganna.
C’è una scimmia che balla sulla schiena degli appassionati di ciclismo in Italia. Una scimmia che ha a che fare con la nostalgia di tempi nei quali gli italiani erano protagonisti ovunque, vincevano i grandi giri e le classiche monumento e trovavano quasi sempre il modo di essere grandi protagonisti in ogni corsa. È passato un po’ di tempo ormai da quando andava così. Nel 2024 compierà dieci anni la vittoria del Tour de France di Vincenzo Nibali e in tutto quel bendidio di corridori che vanno velocissimi e rendono eccitanti e imperdibili le gare di questi ultimi anni non c’è un ciclista battente bandiera italiana. E non c’è a tal punto che a volte il nostro nazionalismo sportivo – c’è poco da accusare i francesi di sciovinismo, L’Equipe in prima pagina ce li mette, e in grande, Mathieu van der Poel, Tadej Pogacar, Remco Evenepoel, Jonas Vingegaard (e si spera un giorno pure Wout van Aert che corre il rischio di diventare la più bella cosa mai successa) quando fanno l’impresa – ci fa concentrare più su un piazzamento che sulla bellezza ciclistica dipinta ruote su asfalto da chi stacca tutti gli altri.
E allora ci si appiglia al meglio di quello che si ha. E il meglio di quello che si ha al momento è Filippo Ganna. E allora si dipingono per lui magnifiche sorti future. C’è chi addirittura s’è voluto convincere che abbia la possibilità di vincere una corsa a tappe di tre settimane. Potrebbe accadere, certo, ma si scontrerebbe con un altro grande problema dei ciclisti da divano italiani: il poco amore per le cronometro.
In tutto questo in molti sembrano aver perso la bussola, soprattutto sembrano aver smarrito la capacità di gustarsi una realtà che è diversa da quella che si vorrebbe, ma che comunque è una realtà piacevole. Il ciclismo italiano gode di discreta salute e il suo campione, e per lo più vincente, ce l’ha. È Filippo Ganna. Certo vince in pista – non solo in pista – ed è questo qualcosa di imperdonabile per chi i velodromi li ha abbandonati a tal punto che a oggi ce ne è solo uno con un tetto sopra la pista (che tra l’altro ogni tanto perde e rende inagibile l’ovale).
È una bella beffa tutto questo. Vincere dove non ci si pensa nemmeno a vincere. Una beffa doppia visto che Filippo Ganna ha sempre accantonato, come si accantonano i rumori di fondo, i suggerimenti di concentrarsi sulla strada mettendo da parte la pista. C’è da volergli bene a Filippo Ganna, perché è già difficile fare il corridore di suo, così è ancora più pesante. Anche perché poi arriva sempre il fenomeno di turno che ti paragona a Fausto Coppi per aver vinto l’Inseguimento individuale.