l'addio
Il Mancio e i suoi nervi di cristallo in un calcio che non ama più
Non è certamente questo il primo addio a sorpresa di Roberto Mancini. Un allenatore carismatico ma spigoloso, che non ha mai trovato quell'equilibrio inscalfibile di un Ancelotti, insoddisfatto della sua stessa insoddisfazione
Uomo che cammina sui pezzi di vetro. Molti anni fa, era il 2016, avevamo preso in prestito senza permesso un verso magnifico di De Gregori per raccontare le luci, i riflessi, le trasparenze umbratili, le fragilità e le schegge taglienti del Mancio: il più bravo, e se non il più bravo il più bello da vedere, il più elegante in campo e fuori, ma anche il più difficile da incasellare fra i calciatori italiani degli ultimi decenni. E poi, dopo, anche fra gli allenatori italiani di rango internazionale, il primo a far vincere qualcosa di serio al City degli emiri, e il primo a rivincere con l’Italia gli Europei dopo una notte fonda durata mezzo secolo. Iscrivendosi così al ristretto club (Pozzo, Valcareggi, Bearzot e Lippi) che con la Nazionale abbiano saputo vincere. E questo nessuna scheggia tagliente e impazzita di oggi, e tantomeno nessun berciare stupido al “tradimento” (ma di che cosa?) glielo potrà mai togliere, a Roberto Mancini.
Ma a quel tempo, dopo il trionfo con gli Azzurri a Wembley, e subito prima di una serie di inciampi e capitomboli che lo hanno portato a fallire una qualificazione ai Mondiali che sembrava un frutto maturo del deserto da cogliere e delibare, il Mancio si era già trasformato da tempo nel “manager”, per dirla con l’inglese, elegante, carismatico ma spigoloso come un cristallo, amato ma che mai si sentiva abbastanza amato, insoddisfatto della sua stessa insoddisfazione, perfezionista con sempre un dettaglio che mancava. Come quando saltava i difensori come birilli, quando inventava gol e triangolazioni perfette con il suo fratello gemello, l’amico della vita, Gianluca Vialli. Con lui vinse uno scudetto che resterà per sempre perfetto e irripetibile, con la grande Samp di Boskovic e del patron-papà Mantovani, per poi vedersi soffiare via dalle dita, dal destino cinico e baro, la Coppa dei Campioni. Quella pienezza fatta di amicizia e di amarezza che infine si è ricomposta, per un’ultima volta, in quel famoso abbraccio tra le lacrime e la gioia a Wembley, lui e l’amico di una vita, a prendersi la rivincita finale sul destino.
Ora sua mamma Marianna dice: “Roberto ha un cuore grande. Non ha mai veramente superato la morte di Gianluca Vialli. Era legatissimo a lui”. E chissà, bisognerebbe saperci leggere fino in fondo, dentro al cuore del Mancio, oltre quei riflessi incerti. Nemmeno Silvia Fortini, moglie e manager, ha voluto illuminare di più gli ansiosi cronisti: era teso, inquieto. “Ci dormo su”, l’ultima frase a Gabriele Gravina, che ora non vede l’ora di caricargli addosso tutte le colpe: soprattutto quelle sue e di una Federzione al mal partito. Ma chissà, forse davvero conta di più la morte del suo amico. Di certo, conta di più una sofferenza interiore, o un’insicurezza mai domata, che non quella ridicola faccenda collaterale della “offerta indecente” per andare ad allenare in Arabia saudita. (E si aprirà qui solo una parentesi per ribadire, come già altre volte scritto, che se il Mancio se ne andasse pure lui da questo Titanic con le scialuppe sgonfie che è il calcio italiano, farebbe solo bene).
Ma sta nelle sue corde, in certe sue bizze nervose anche quando vince, un addio così fuori tempo e senza calcolare il resto.
Così ora tutti gli altri a dire male di lui, non ci comporta così, hai lasciato la squadra a un passo da due partite decisive per la qualificazione, e senza alternativa e senza spiegazione. C’è del giusto. Ma gli italiani sono un popolo di incoscienti e irriconoscenti. Incoscienti quando (paradossalmente, per troppa riconoscenza) non ne hanno chiesto le dimissioni prima, dopo una serie di sanguinose sconfitte. Ma allora, qualche mese fa, il mito del Mancio sembrava pronto da lucidare ancora. E, soprattutto ai vertici del calcio italiano nessuno ha avuto il coraggio di fare quel che si doveva. E adesso, irriconoscenti, nessuno vuol ricordare quel che il Ct ha fatto, la vittoria sul muso degli inglesi e altre rare meraviglie.
Invece è rimasto lì (volente? Volente). E anche un po’ nolente, perché il Mancio non è il tipo da far da paracadute a dirigenti che dovrebbero, nel caso, farlo a lui. Paracadute e assicurazione sulla vita di una dirigenza alla deriva, e una polizza d’immagine e di contratti di pubblicità che ora chissà come faranno.
Ma si è dimesso adesso, non prima. E sarà che pure con l’altro amico di una vita Evani, che se ne è appena andato dal team azzurro sbattendo la porta, qualcosa si è rotto. E sarà che dei recenti magheggi riorganizzativi si sentisse, come pure si dice, più vittima che artefice. Ma c’è qualcosa che è tipica, in modo tagliente e cristallino, in questo addio senza spiegazioni, in questa bizza da purosangue, in questo dribbling senza esito intellegibile. Non è certo la prima volta che si dimette “prima”. E senza spiegare. E così si torna alla indecifrabile psicopatologia della vita quotidiana del Mancio.
Mentre stava vincendo il terzo scudetto con l’Inter, avendo rimediato l’ennesima assurda eliminazione in Champions si lasciò andare a una esternazione coi fiocchi (“Non so se tra due mesi sarò ancora qui” fu la frase più trascrivibile). Fatto sta che a fine stagione Moratti lo licenziò, e il Mancio sembrò quasi esserne sorpreso. Belle vittorie e repentini, poco spiegati addii vennero col City, con lo Zenit di San Pietroburgo. Poi accadde, nella seconda vita all’Inter, nel 2016, quella cosa che lasciò tutti di sasso. Il Mister tutto à plomb e completi perfetti sbroccò contro Sarri, un tipo di rude Cipputi del pallone che andava in panchina il tuta e stecchino tra i denti. Fu una sera a Napoli, lo stadio ancora si chiamava San Paolo. Una lite tremenda. Poi ai giornalisti disse: “Battibecco? Domandate a Sarri, che è un razzista. Io dico che uomini come lui non possono stare nel modo del calcio. Sarri ha usato parole razziste: ha iniziato a inveire contro di me, dandomi del ‘frocio’ e ‘finocchio’. Ha 60 anni e si deve vergognare, questo episodio cancella tutto. Uno che si comporta così in Inghilterra non vedrebbe più il campo”. L’impressione fu forte, non s’era mai visto in Italia fare così. Qualcuno ebbe il sospetto che si fosse spezzato qualcosa, nella calma interiore-esteriore che ammantava orma il mito del Mancio. Vennero parole al vetriolo con i cronisti, vennero scazzi nello spogliatoio (Stevan Jovetic, gioiellino lucente, non si riprese mai dai maltrattamenti al limite del mobbing di un allenatore che non lo amava). Di Maurito Icardi, a quei tempi stella della tifoseria, disse: “Questo lo segnavo anch’io a cinquant’anni”. Finì con un altro burrascoso addio. L’uomo che cammina sui pezzi di vetro, il grande campione e super allenatore che in carriera ha avuto belle e grandi soddisfazioni, non ha mai trovato quell’equilibrio inscalfibile di un Ancelotti, o la filosofia interiore di un Guardiola, o la forza e il carisma del comando di un Mourinho. Ogni tanto qualcosa si incrina, un’ombra fra traballare tutto. Ci possono essere motivi pratici, persino di interessi, e uno scoramento verso l’intera Figc è chiaro, in questo addio. Ma un altro non lo avrebbe fatto così, con una finta imprevedibile che lascia tutti spiazzati, con un sapore di imperfezione inspiegabile, come un gol sciupato, che anche questa volta il Mancio, l’impenetrabile Mancio ha voluto regalare al calcio.
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA